
Sul palcoscenico del Teatro Carcano si ritorna al 1942, quando in un piccolo paese della Sicilia, mentre fascisti e alleati si bombardano, Nino e Minica vivono il loro piccolo dramma privato. Una storia questa, tratta dall’omonimo romanzo di Andrea Camilleri, riscritta e diretta oggi da Giuseppe Dipasquale.
L’espressività linguistica è la prima attrice della scelta drammaturgica. Il dialetto siculo viene giocato con audacia e sapienza, colorato sì dai modi di dire più tipici, ma risultando sempre comprensibile. Al gioco con le parole viene alternato con intelligenza quello con la musica. Le cantate e le suonate dal vivo di Mario Incudine e Antonio Vasta prendono vita dalla tradizione orale dell’isola, quella “da barbiere”, dando alla pièce un ritmo brioso.
La recitazione degli attori è la messa in scena di un vero voto al teatro. Mario Incudine e Valeria Contadino, nei ruoli di Nino e Minica, sembrano letteralmente incastrati nella pelle dei loro personaggi, restituendo una recitazione ora entusiasmante ora commovente, toccando talvolta toni di troppa melodrammaticità. È la Contadino il vero fil rouge dello spettacolo, che prende per mano l’emotività dello spettatore tra le pieghe di una storia drammatica, restituendo un personaggio caratterizzato ora da una tenerezza tutta al femminile, ora da una passione sviscerale.
A muoversi tra la vivacità del dialetto, le musiche folkloriche e le vicende dei paesani è il demiurgo Moni Ovadia. Direttamente sulla scena, questo narratore con barba folta e voce grossa racconta dall’esterno le diverse parti dell’intreccio, tirandone le fila e raffigurando su uno sfondo fascinoso la storia dei personaggi, che sembrano balzare direttamente fuori dalle pagine del libro di Camilleri: una scelta registica incisiva e originale. Degno di nota il cast attoriale al completo, oltre ai già citati, anche Sergio Seminara, Giampaolo Romania e Antonio Putzu.
La storia viene disegnata su una scena sobria, che tuttavia restituisce con pochi oggetti il sapore di una Sicilia aspra e delicata, come l’amore di Nino e Minica. Anche lo sfondo del palcoscenico, sempre diverso grazie all’uso ingegnoso delle luci, imprime a tutta la scena un’atmosfera mistica, anche se con i suoi crateri evoca l’aridità del suolo. E d’altronde, l’inno alla vita con cui si conclude “Il casellante”, non solo penetra con suggestione nelle radici della terra, ma anche in quelle della natura umana, suonando sulle note di una sensibilità delicata e straziante allo stesso tempo.
Chiara Musati
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