
C’è un’immagine, un archetipo scolpito nell’inconscio collettivo degli spettatori, che si impone sugli altre, una gestalt, una forma che emerge dallo sfondo, urgendo alla vista della platea, quella di Ariel, dello spirito volante che aleggia sulla Tempesta di Strehler, capitalizza su di sé tutto il realismo poetico del Maestro, ed il suo nome corrisponde a quello di Giulia Lazzarini. La sua fisicità leggera, il suo essere naturalmente il personaggio del quadro di Chagall “La passeggiata”, una donna sospesa a mezz’aria, pronta al volo, trattenuta solo dalla mano del teatro, la rende un tutt’uno con questo spirito dell’aria, e nei suoi fonemi risuona, con suono argentino, la leggerezza evocata da Calvino. Appare come la controparte femminile di Peter Pan, un suo doppio, o meglio la sua anima, la parte junghiana femminile. Puera aeterna, ma anche puella, fanciulla dei Carmina Burana, e basta toccare con lo sguardo la tunica del suo personaggio, per sentirla frusciare. E’ naturaliter il fanciullo pascoliano, e le sue battute sembrano coagulare in loro le songs of innocence di blakiana memoria.
Corre come un’irriverente Zazie nel metrò da un copione all’altro, con passo leggero di fata, e deve esserci sicuramente, nella sua vocalità, una polverina magica in grado di incantare, una malia simile a quella dei personaggi fatati del Sogno di una notte di mezza estate. Ma da quello scricciolo, da quell’animula vagula e blandula, uscita dal foglio dei pensieri di Marco Aurelio, ecco che improvvisa, come un temporale estivo, fa mostra di sé un’anima tragica, in grado di camminare, con estrema disinvoltura, sugli alti coturni del tragico. La sua donna ebrea nello spettacolo Terrore e miseria del Terzo Reich soffia l’inverno del dramma sullo spettatore, dandogli un brivido interiore, ma subito dopo una coperta femminile, accogliente, fatta da una voce calda, un po’ arrochita, che sa alzarsi, che sa raccontare ‘l’ombra profonda, l’inquietudine dignitosa, trattenuta, come una mano che lascia intravedere, attraverso gli sfilacci di luce, la lucciola chiusa nel suo palmo. Una donna ed un telefono, bastano questi due elementi per fare di un palcoscenico un regno, per far avvicinare idealmente la platea a quella piccola grande scena.
I suoi soffiati giganteggiano, sono i messaggeri di una tempesta interiore, intravista nella seta sottile delle battute. Il suo pudore, vestito di dignità, chiama a raccolta gli ultimi dei di questa tragedia del novecento. E con grazia e maestria coreutica, illuminata nel movimento da una naturale grazia tersicorea non ha difficoltà ad incarnare un personaggio goldoniano del Campiello, trovando nel suo ideale baule da attrice una voce sottile, capace di arrampicarsi sulla ripida scala della giovinezza, facendo gli scalini a due a due, a tre a tre, e restituendo tutto l’argento vivo di una giovinetta, laddove vive il genio teatrale del commediografo del settecento. L’età non è un assoluto inderogabile, nella sua recitazione si piega, si contrae, è una pellicola in grado di scorrere in entrambe le direzioni, ha la freschezza di una corsa selvaggia inarrestabile del bambino, la sfrontatezza,la guasconeria dell’adolescenza, la levità dell’aquilone che non resiste al corteggiamento del vento poetico. Anche le sue incursioni nel mondo di celluloide sono impregnate del suo profumo interpretativo, in particolare il suo ruolo della madre nell’omonimo film di Moretti, in esso l’attrice suona uno spartito elegiaco, una musica di parole investita di un potere orfico, capace di smuovere anche il sentimento più sopito. Realizzando una sorta di sovrimpressione psichica, nel suo viso convivono la donna madre e la figlia, la cura genitoriale di Demetra, e lo sguardo perso, stranito della figlia Persefone rapita da Ade.
Riesce nell’impresa, come in altre prove d’attrice, di una recitazione di misura, fatta di sfumature, dettagli, di microcosmi che si aprono come frattali a mondi interiori vasti, tutti da esplorare. Giulia Lazzarini non ha semplicemente due occhi, ha due biglie vivaci, rilucenti di luce interiore, aperte, ospitali, che chiamano lo spettatore a visitare la sua accogliente casa dell’anima. Il suo sorriso ti sorprende all’improvviso come i primi goccioloni di pioggia, e riesce nel miracolo di contenere in sé, attraverso un delicato gioco gianobifrontico di convivenza degli opposti, il comico ed il tragico. In un espressione sola Euripide ed Aristofane riescono a convivere sullo stesso viso. La voce sale leggera come un ottavino che fa sorridere l’animo, ma sa grattare dalla laringe anche polvere di stelle, con cui dare al suo personaggio tutta la fatica del’esistere. Con grazia di piccola farfalla vola da un ruolo all’altro, si lascia inceronare da quel nettare, e mostra, come pochi sanno fare, quello stupore che è molto più di uno stato d’animo del testo scenico, è quasi un’intuizione metateatrale, la sorpresa di trovarsi d’incanto vivi nel proprio ruolo.
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