Cosa succederebbe se l’anarchico Giuseppe Pinelli e il commissario Luigi Calabresi, sospettato ingiustamente di averlo gettato dalla finestra durante un interrogatorio, fossero rispediti dall’aldila ai nostri giorni? Ne verrebbe fuori un sessantotto… o forse non più.
“Il Carnevale dei truffati” , in scena al Teatro della Cooperativa fino al 27 giugno, e’ stato scritto dal giornalista Piero Colaprico in collaborazione con i due interpreti Bebo Storti e Renato Sarti, curatore della regia. Una grottesca riflessione sulla apatia politica e sociale che sembra caratterizzare i nostri giorni attraverso cronaca e memorie.
Dio (Paolo Rossi) apre lo spettacolo. E’ un dio stanco e autoironico, a cui piace parecchio cantare, intento a tenere un irriverente concione sull’attuale situazione italiana. Sarà proprio Dio ad anticipare lo scenario che aspetta sul palco: un limbo, in cui alcuni morti vengono costretti a percorrere in coppia una collina senza fine, accostati secondo una sorta di tragicomico contrappasso che costringe a un lungo confronto ideologie estramamente diverse: Hitler e Gandhi, Einstein e Salvini, l’anarchico Pinelli e il commissario Calabresi.
E il confronto a cui assisteremo sarà proprio l’ultimo, riattraversando con i loro ricordi e le loro parole le luttuose tappe della strage di Piazza Fontana e di quegli anni di rivoluzione.
Lo scontro tra i due attira l’attenzione di Dio, che palesatosi li lascia increduli e sbigottiti per la scelta della forma e delle parole con cui si è mostrato.
Ed è quasi per dispetto che Dio rimanda i due sulla terra a vedere cosa ne è stato della loro lotta.
Qui i due cominciano voracissimi a leggere giornali su giornali, saltando sfrenatamente da Tangentopoli alle Twin Towers e soffermandosi infine sulla figura di “Plasticone”, un politico intento ai Bunga Bunga (chi vuole cogliere colga), e dell’assenza di una vera ribellione a questo cambiamento di valori sociali e politici.
Dopo ipotesi amare e ancor più amare conferme da parte di Dio, i due torneranno sconsolati nell’aldila, costretti ancora a camminare verso l’infinito, ma ora non più in conflitto e anzi uniti da ciò che hanno visto.
Alla fine rimane quasi un senso nostalgico, e risulta evidente che gli autori abbiano vissuto quegli anni (e questi). Nonostante la palese presa di posizione non manca lo spirito autocritico e lo spettacolo lascia uscire gli spettatori con un sorriso e molti spunti per riflettere.
Siamo divisi da quegli eventi da poco meno di 50 anni, ma il cambiamento è stato epocale.
Cosa direbbe un sessantottino se fosse catapultato nel presente?
“Il futuro che sognavamo si è disintegrato. Nessuno reagisce al sopruso.”
Davide Scaccianoce
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