Un vecchio gioco, di Tommaso Urselli, con la regia di Filippo Gessi, è uno spettacolo non convenzionale, lontano dagli schemi della drammaturgia tradizionale.
La storia dei due protagonisti, Bimbo e Bimba, recupera episodi di un passato più o meno lontano, in un succedersi di eventi senza apparente consequenzialità temporale, traboccanti in un testo che si colora dei tratti tipici del thriller. Le fila della trama sono tirate più dai gesti e dall’azione, che dai dialoghi e dalle parole. In un mix indistinto di passato e presente, i due protagonisti ricompongono la storia e vivono le vicende con gli stessi strumenti che hanno segnato le loro vite, la brutalità, il sesso, la violenza sessuale. È proprio la violenza il centro tematico assoluto dello spettacolo: Bimbo e Bimba, vivendo la loro relazione e resuscitando il passato, si muovono sulle note di una violenza bruta, che loro stessi hanno subito e che non si risparmiano di infliggere agli altri.
Non si risparmia nulla: non mancano scene sessuali sfrontate e di lunga durata, veri calci e pugni a un personaggio emerso da chissà quale passato, le sevizie sessuali che subisce Bimba dal padre. E l’innocenza dei soprannomi dei due protagonisti è il paradosso più inquietante, il filo rosso dello spettacolo, che si veste anch’esso di una violenza malata e oscena. È da sottolineare, però, che essa appare in scena con una forza assolutamente reale, presentandosi così com’è, nella sua naturalità istintiva. È assente un vero e proprio giudizio, non si pronuncia una direzione morale, manichea, che conduce a seguire lo spettacolo, a segnalare ciò che è riprovevole.
Sul palcoscenico del Teatro Pacta Salone, essa prorompe su una scena ampia, ma semplice. Tra un divano, un lungo tavolo e un bagno nell’angolo, gli attori gestiscono bene lo spazio, giocando con la scena senza disperdere lo sguardo dello spettatore. L’effetto delle luci si presta a ritagliare un ombrello sui movimenti dei protagonisti, contribuendo a ridurre lo spazio. Il fatto che gli attori non sembrino emotivi o partecipi nella recitazione sembra essere una testimonianza ulteriore di descrivere la violenza e di farla emergere in trasparenza. Essa dà forma a quei sentimenti e istinti dell’uomo familiari e conosciuti – per quanto più o meno distanti ci possano apparire – portati sulla scena senza camuffamenti, minimizzazioni né dissimulazioni, rovesciandosi in scena con un impeto disarmante, quasi fastidioso. Questa scelta registica coraggiosa e spregiudicata, che rende palpabile qualcosa che neghiamo di conoscere, finisce per essere ben apprezzata: convivendo con i difetti riprovevoli dell’uomo e non solo con le sue virtù sublimi, (ri)conoscere le pulsioni umane in modo così toccante e palpabile non può che essere una bella sorpresa.
Chiara Musati
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