
Entrare in scena è la cosa più difficile da fare. Dichiara subito uno degli attori di The repetition, primo capitolo della serie di Milo Rau, Histoires du théâtre dedicata all’essenza teatrale. Qualcuno entra in scena già nei camerini, calandosi nei panni del personaggio, continua a spiegare l’attore in piedi sul proscenio. Il teatro è uno strumento per porgere dei messaggi, un canale di comunicazione tra il palcoscenico e la sala, ed è per questo che anche l’attore deve farsi strumento di questo messaggio, lavorare perché possa essere trasmesso. Che l’attore entri nel personaggio in camerino, non interessa a nessuno. Poi rivolgendosi al pubblico chiede in tono provocatorio: quando vi consegnano una pizza, qual è l’oggetto del vostro interesse, il fattorino o la pizza?
Su queste e altre riflessioni, e sulla scia delle risate iniziali necessarie per affrontare l’efferatezza che seguirà, si allarga lo spiraglio della narrazione. Il punto di partenza è un fatto di cronaca del 2012: a Liegi, il trentenne Ihsane Jarfi, belga di origine magrebina, omosessuale, viene pestato a morte da quattro coetanei. Una di quelle notizie che quando arrivano alle orecchie di chiunque, innesca una serie di domande sull’incomprensibilità del fatto, le motivazioni, la sequenza cronologica degli avvenimenti, le condanne morali e le colpe sociali, sul dolore che deve aver provato Ihsane agonizzando sotto la pioggia per quattro ore. E Milo Rau porta il suo pubblico dentro le scarpe dei protagonisti di questa vicenda, senza alleggerirgli la coscienza. Per mezzo di una videocamera che mescola la visione teatrale metaforica a quella realistica cinematografica, la regia, dilatando la prospettiva, costringe lo sguardo a essere dentro al fatto vero e proprio, e non solo testimone. Suddiviso nei cinque canonici atti teatrali, la vicenda si dipana e scandaglia parallelamente il racconto nei suoi dettagli e la modalità di messa in scena. The Repetition non è solo il titolo dello spettacolo ma una dichiarazione d’intenti: la ripetizione dell’atto teatrale altro non è che una sequenza di eventi riproposti ogni sera nello stesso ordine, esattamente come la ricostruzione della scena di un crimine, che si fa quindi pretesto di riflessione sulle tecniche narrative. Lo spettacolo si costruisce così su una moltitudine di dispositivi scenici, dal video al documentario, la musica e la performance, che cooperando con la classica drammaturgia ne avvalorano l’esistenza e creano un substrato di piani di significato tanto ramificato e complesso da assumere una pregnanza reale, tanto da interrompere quella famosa sospensione dell’incredulità attraverso cui regrediamo, come spettatori, all’ingenuità dell’infanzia. Qui l’effetto è opposto: siamo tutti chiamati in causa con la nostra coscienza critica, tutti coinvolti nel crimine che sta avvenendo sotto i nostri occhi, nel momento stesso in cui siamo seduti a teatro, siamo colpevoli, come sempre dovrebbe essere uno spettatore.
Come in quella storia che ci racconta un attore nell’epilogo. Un attore a cui viene chiesto il senso del teatro e lui per rispondere sale in piedi su una sedia, sopra di lui una corda e un cappio. Dichiara al pubblico che metterà il cappio intorno al collo, farà cadere la sedia e la gravità farà il resto. Resisterà una ventina di secondi, finché qualcuno non si alzerà dalla sua poltrona per salvarlo.
Alessandra Pace
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