
In una famosa intervista, Marlon Brando dichiarò che la recitazione, nella forma di menzogna, di finzione, è un patrimonio comune, una sorta di unguento sociale. Ecco, Tartufo rappresenta quell’oliatore universale in grado di aprire, con la chiave, altrettanto universale, della manipolazione, ogni serratura. La potente intuizione del regista/attore Sinisi è rendere questo personaggio una sorta di archetipo, di specchio psichico, in cui ogni personaggio può vedere la realizzazione dei propri desideri inconsci: odiato, idolatrato, temuto, ma sempre al centro gravitazionale degli accadimenti scenici. Lentus in umbra, si muove con atteggiamento lordotico, la pancia in fuori e il di dietro in alto, trovando già l’espressione, felicemente brechtiana, di un gesto straniato, sociale del personaggio, in grado di donargli un’immediata percettibilità. Incarna il pericolo che la morale diventi moralismo: un buon piatto di spaghetti, che, come ricordava causticamente Gervaso, diventa un piatto di spaghetti vomitato.
Sferza, la frusta sociale di Molière; è la volontà di sanzionare, attraverso la commedia, il farisaico opportunismo, la forma di una religiosità “trovata” per convenienza, per mettere in atto una captatio benevolentiae. E, ancora, si realizza, nel tessuto recitativo dello spettacolo, quel metodo specifico del regista, che meriterebbe di essere enciclopedizzato come metodo Sinisi. Si riesce, infatti, a trovare il vero che passa dalla carne, dalle birre Peroni, dalle animelle e cartellate, dai trimoni nascosti tra secenteschi, invisibili, trumeaux. Sono personaggi tragicomici, e, già in questa magnifica contraddizione, trovano uno scarto ulteriore di verità. Potrebbero sfrecciare su motorini truccati di Bari vecchia, cercando i modi per far si che la-capa-gira, o abitare il salotto della casa di Orgone, che vive di pochi, indovinati elementi. Si arrabbiano e si disperano fino a diventare rosse cartine di tornasole pronte a segnalare la causticità della vicenda, o ridono e fanno ridere di gusto, come fantasisti di un gioco carioca di improvvisazioni sceniche, condite con il sugo della buona vecchia commedia dell’arte.
Ci vuole credere Sinisi, vuole davvero far suo l’amperometro del giudizio stanislavkijano del non ci credo ancora. Lo si potrebbe facilmente immaginare davanti al palco, durante le prove, a rendere le scene danze indiavolate della taranta, lanciando, idealmente, sul polveroso marmo dell’esegesi molierana lo stesso irridente, genuino fango buttato, come gioco erotico di scherno, sull’angelica/demoniaca Deneuve in Bella di giorno. La musica diventa una giusta playlist, un modo in cui la scena stessa cerca il suo stimolante somatico nelle note. Stefano Braschi forma, a buon diritto, l’altra metà della perfetta coppia scenica con Sinisi. E’giusto citare e rendere merito al resto del cast uno alla volta, con la solennità dello speaker che annuncia i nomi di una squadra prima della partita calcistica.
Ecco, dunque, il catalogo: Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Donato Paternoster, Bianca Ponzio, Marco Ripoldi, Adele Titante. Tutti, ma proprio tutti, hanno, come ideale coach attorale, Muhammad Alì, pungono come api e danzano come farfalle. Sono ritratti, precisi e felicissimi, di tutto un campionario di psicopatologie della vita quotidiana che vivono nel nostro tempo. E, anche su questo, è corretta l’operazione di trasposizione della vicenda nel nostro presente. Si riesce a mettere a suo agio Molière tra i cuffioni colorati, e i giubbotti smanicati, ovviamente griffatissimi. Cambia la moda, ma i costumi da castigare sono sempre i medesimi. Menzione speciale, inoltre, occorre per il finale, che, oltre a rendere omaggio alla presenza della musica e della danza nell’originale commedia molieriana, insignendola di uno statuto anticipatore del musical, regala un riuscitissimo sfottò di un deus ex machina che canta alla secentesca, ma avviluppato nel gold degli Spandau Ballet, che always believe in your soul. Questo dio, questo Re Sole che luccica come la carta aurea di un gigantesco Ferrero Rocher (forse divorato da un gigantesco Tartufo della montagna dietro le quinte), dichiara la morale, ma, come Heiner Müller, la nega, sbeffeggiandola. E ci si immagina una postfazione in cui Tartufo/Sinisi dichiari al pubblico, in lingua franco-pugliese, la frase, riveduta e corretta, di Flaubert: Le Tartuffe, c’est moi!
Danilo Caravà
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