Recensione: “Questa lettera sul pagliaccio morto”

pagliaccio
Foto Guido Mencari

Può capitare di scegliere, deliberatamente, di spillare la luce in scena, carta dopo carta, battuta dopo battuta, perché anche la luce è una conquista, un parto difficile. Una macchinista racconta una storia: basta questo a costruire una scienza atta a fare del mondo un mondo diverso, concentrato sul suo viso. E, allora, ecco che il miracolo si compie. Vediamo non semplicemente il volto dell’attore, in un gioco di ombre da film noir, ma anche le parole che escono una dopo l’altra, che hanno ancora l’odore del forno dell’anima in cui sono lievitate. E la vita scoppia in faccia davanti alla protagonista, le scoppia nel cuore come nel verso della canzone di Mina, nella forma di un pagliaccio con il suo monociclo, che ha deciso, al pari di Antigone, che sia tutto oppure il nulla. Ecco le opinioni di questo clown di Böll, che, oltre alla gamba, ha tutta l’anima che sanguina. Porge la sua storia con l’immediatezza e la crudele, disperata bellezza dei fiori di Baudelaire che, momentaneamente, spruzzano un’ acqua singhiozzante, malata come la fontana di Palazzeschi.

Eccoli lì il volto, il corpo che combattono per avere la luce; l’effetto è quello di una terra di nessuno tra l’essere e il non essere, in una poesia che trova un cantuccio tra i due corni del dilemma, così come un gatto si accuccia nell’angolo libero di un divano. In fondo, è sempre una questione di centimetri, come diceva l’allenatore interpretato da Al Pacino in Ogni maledetta domenica, ma sono quei centimetri che fanno la differenza, che mostrano che le rose migliori crescono proprio accanto all’ombra. Un racconto ha questo potere, da sempre, e una storia è la vita che si mette a camminare in equilibrio sul monociclo delle parole. E ogni parola è un paesaggio, esteriore ed interiore. Può succedere persino di ritrovarsi in una caverna di Platone; ma, questa volta, le ombre non sono una condanna, non fanno paura, sono l’eco di un mondo dentro un altro mondo, sono il precipitato dei ricordi, il loro farsi cosa viva e visibile sull’orizzonte degli eventi possibili.

Da qualche parte, nascosto nell’ombra, deve esserci un angelo di Wenders a dare tutto un altro sapore alla tragedia umana. Una creatura in grado di richiamare sulle labbra le parole giuste, quelle che si portano dietro tutta una brocca di sentimenti, e la offrono alla platea, senza perdere nemmeno una goccia. Davvero non c’è paura, anche se si descrivono gli ultimi istanti di vita di un pagliaccio, perché la poesia di una memoria di esistenza è un meraviglioso abracadabra, una voce materna che ti culla, che rende persino il buio una coperta con cui potersi riparare dal freddo. Un manichino metallico, un simbolo del pagliaccio, che sembra struggersi per la vita che non ha, ma che rappresenta, sembra rivolgersi cristologicamente alla platea, con la perfezione di una macchina anatomica di Sansevero.

È sufficiente una luce azzurrognola per dare una vita venosa a quei fili ritorti, per far dell’anima di un personaggio cosa salda. Tarkovskij e Kusturica sembrano che ballino idealmente una danza balcanica, insieme malinconica e festosa, come solo certe musiche balcaniche riescono ad essere. Nascere in un circo, come il protagonista, è, in fondo, vedere la vita con dei toni di colori così accesi che, a guardarla, ti si consumano le pupille, ti fanno male gli occhi. Significa stare dentro un quadro espressionista, senza poterne mai uscire; e, allora, un po’ di oscurità può diventare persino catartica, quasi come se, sulla luce che lo abbaglia, il clown avesse messo un foulard esistenziale. Le lacrime, l’amore, proprio non ne vogliono sapere di rimanere coperte dal cerone, e il sorriso disegnato nasconde tutte le acrobazie degli stati d’animo di cui una bocca è capace. Ci si trova, senza accorgersi, in un paese segnato dalle fughe radioattive di una centrale nucleare, dove i bambini vivono un giorno solo, come Marinella, come le rose. E c’è una voglia di abbracciarlo, di tenere davvero una mano a questo essere che crede a una vita più grande della sua vita, che insegna a una macchinista che l’uomo è molto più di una macchina, che ci si può fermare ad ascoltare una storia, che si può sorseggiare il tempo, anche se ne rimane poco.

Un intero istante di felicità, per scriverla alla Dostoevskij, è forse poco in tutta la vita di un uomo? Il regista e autore del testo, Davide Pascarella, racconta in punta di piedi, sussurrando, i soffiati di luce di questo sinonimo, perché appaia quella fiamma di vita che si accende, come i fiammiferi di Prévert, per fare dell’oscurità una delle più belle poesie. Eva Meskhi prende in mano idealmente la storia, ne fa l’origami, e, senza accorgersi, si ritrova a usare anche la carta sottile della sua anima. E’ accompagnata dalla musica di Chiara Dello Iacovo, che diventa uno stimolante somatico, psichico, un coro tragico in grado di rilanciare il gusto di una Madeleine che il pagliaccio non ha mai assaggiato. L’attrice si sottopone a una ginnastica, parallelamente, fisica e psicologica. E il cuore è proprio lì: nella semplicità di un fonema, di una battuta, che raccoglie in sé una voglia sottile di piangere, un po’ come accade per quell’aria che anticipa i temporali, e una specie di sorriso, enigmatico più di quello della Gioconda. Sorride, questo pagliaccio, e, stavolta, non per maschera, perché la morte sorride a tutti e uno non può che sorriderle di rimando, con la promessa di essere la terra che tiene nella mano.

Danilo Caravà
Fotografia di Guido Mencari / www.gmencari.com

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