Recensione: “Nella solitudine dei campi di cotone”

campi di cotone
Foto Luca Del Pia

Certi dialoghi sono fatti per tornare insistentemente alla memoria, girano e ti girano nella testa come si fa con le chiavi nella tasca, e il suono metallico conforta, quasi ipnotizza, è un mantra, una nenia di cui non si può fare a meno. Come accade in questo spettacolo, in cui si torna all’essenzialità, i due protagonisti si sono idealmente fatti la barba con il rasoio di Occam, e hanno parole da dirsi forti quanto il vino degli antichi, che va diluito con il miele e con l’acqua.

Ma qui di miele non ce n’è, ci sono solo un venditore e un dealer, un potenziale compratore che si incontrano molto più a sud dei beckettiani finali di partita, e dei beniani santi. Costruiscono una sorta di partita di biliardo, delle geometrie, dei cinematografici campi e controcampi, sono duellanti conradiani che non finiscono mai il loro duello, anzi che rimangono sempre sul punto di poterlo cominciare. Si studiano, si osservano, mantengono la giusta distanza, si tirano dei tremendi pugni verbali, ma entrambi sono degli ottimi incassatori. Vendere e comprare, il gioco tremendamente serio parte da lì, dai rapporti di produzione, dalla brechtiana pancia che viene prima della morale. Ma qualcuno ha chiamato gi ultimi giri di questa partita a poker, e i giocatori hanno entrambi poche fiches, in compenso hanno pugni chiusi nelle tasche, e tanta rabbia da ringhiarsi reciprocamente addosso. Tra loro un bastone da passeggio è il segno grafico, e insieme esistenziale, di un punto esclamativo con cui grassettano i loro fonemi.

D’altronde c’è da qualche parte, nelle pause, nelle attese che l’altro termini il suo discorso, la netta sensazione che ci sia un demone lacaniano a ricordarci che il linguaggio opera interamente nell’ambiguità, e chi ascolta presta all’altro la sensazione di essere lì, di essere capace di dare la risposta che si attende. I fonemi scrosciano giù come goccioloni di un diluvio, e, dalla parte della platea non si può fare a meno di prenderla tutta quell’acqua, rinunciando all’ombrello della razionalità. E quell’umidità che danno le parole richiama tremendamente le coscienze, le individualità a raccogliersi. Dopo un po’ è come se le parole mostrassero le ossa, le intenzioni si raggrumassero nell’anima dei personaggi, e l’anima non la si può dire, la si può vagamente percepire, intuire. Il regista Renzo Martinelli è bravo nel giocare al meglio le due forze opposte che esprimono i due personaggi, una centrifuga e una centripeta. Spilla il loro avvicinarsi come un bravo giocatore di poker, e permette alla platea di sentire distintamente l’odore dell’aspettativa di incontro/scontro. Li fa muovere su un’ideale scacchiera, persi quanto e forse più di major Tom nel buio siderale dei loro dubbi. Ma hanno un filo invisibile di Arianna che non permette loro di allontanarsi più di tanto. Ce l’hanno dentro quella didascalia del finale beckettiano, “non si muovono”. I loro sono falsi movimenti sono una danza, un tango straniato, biomeccanico, futurista, marinettiano, compongono un dipinto astratto di Mondrian. E hanno sempre delle pareti con cui far dialogare silenziosamente le loro nuche. Ma quando si incontrano fanno scintille, diventano uno specchio talmente vero da non saper più quale sia il corpo e quale sia l’immagine.

Martinelli ha colto l’essenza stessa del testo di Koltès, il racconto di due cattività della coscienza, il tentativo di una relazione umana, la ricerca di un riconoscimento reciproco, portando il tutto su un piano il più possibile universale. L’esistenza, o meglio la vita cosciente, che si accorge di altra vita cosciente sembra un recinto che si accorge dell’esistenza di un fuori. E in presenza dell’altro non si può che urlare la propria prigionia. Oltre al muro di Waters c’è la risposta all’interrogativo “Is there anibody out there?”, ma quella risposta viene da una voce che deve necessariamente farsi grossa per superare l’altro muro che la circonda. Nessuna madre coraggio in questa storia, solo due figli paura e sofferenza, due creature che potrebbero fare a pugni, oppure abbracciarsi selvaggiamente fino a farsi male, nel tentativo di fondersi e confondersi in unico essere. In scena c’è lo scheletro di un ingresso, una cornice di metallo che ci introduce all’ultima città dolente, alle ultime vestigia della perduta gente, due uomini che alla fine qualcosa comprano e vendono sicuramente, il loro tempo, dunque il loro stesso esserci.

I due attori, Cristian Giammarini e Giuseppe Sartori, sono capaci di accordare le loro anime fino allo stremo, di far risuonare il loro diaframma come un tamburo di guerra. E mentre passano in mezzo al pubblico, nel loro viso si scorge distintamente il miracolo della possessione da parte del personaggio, e insieme quella luce apollinea nello sguardo con cui ci si taglia, anche solo nell’incontrarla brevemente. Non sono in tensione, sono la tensione stessa e quando li si coglie nei loro piani-reazione, nei momenti di ascolto, ci si accorge di quanto si sottopongano, per l’intero spettacolo, ad una meravigliosa ginnastica fisica, e, soprattutto, mentale, emotiva, spirituale, davvero sfiancante, mettendo tutta la loro carne, ipotecando anche quella che non hanno, sulla bilancia della platea. Meritano tutti gli applausi finali, questi irriducibili duellanti.

Danilo Caravà

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