Recensione: “Moun”

moun
foto Serena Groppelli

Quella di Moun, messa in scena da Teatro Gioco Vita, è una storia semplice. Una bambina nata in un paese dilaniato dalla guerra, viene affidata dai genitori alle onde dell’oceano attraverso una piccola scatola di bambù, nella speranza che dall’altra parte possa trovare la vita serena che le sarebbe negata nella sua terra d’origine. Trovata e adottata da altri genitori, la bambina cresce forte, felice e circondata da fratelli e sorelle. Fino al giorno in cui le viene rivelata la verità. Allora deciderà, attraverso un gesto simbolico, di restituire all’oceano tutti i ricordi e gli oggetti che hanno significativamente delineato la sua crescita, nella speranza che quest’ultimo la riconsegni ai suoi naturali genitori. Solo così Moun potrà aver restituito loro la pace che questi hanno donato a lei, pagando il prezzo dell’abbandono di una figlia.

Una messa in scena la cui estetica non è particolarmente innovativa, né viene da pensare che fosse questo lo scopo, ma assolutamente funzionale alla trasmissione di una storia che ha il sapore della leggenda e che come tale viene delicatamente trattata attraverso la forma del teatro d’attore, di ombre e di figura, in cui però non manca nemmeno l’elemento più tecnologico delle proiezioni visive. Ma ciò che incanta lo spettatore di tutte le età, di questa produzione della compagnia Piacentina, è soprattutto il risultato di un’attenzione registica che punta a tenere tutti questi livelli in costante comunicazione tra di loro venendo tutti impiegati al solo ed unico scopo di servire la storia che si intende raccontare, senza mai che l’uno possa escludere o comprimere l’altro.

Ed infatti rimane una storia narrata, dall’inizio alla fine, dalla bravissima Deniz Azhar Azari, eccezionale nel tenere sempre tesi i fili che collegano il punto di vista della protagonista a tutto ciò che la circonda nel suo percorso di crescita, magicamente reso dai fondali acquerellati (Sergio Bernasani) proiettati alle sue spalle, da una suggestiva colonna sonora (Paolo Codognola) e dalle piccole sagome mobili presenti sulla scena (Nicoletta Garioni). Sagome che, una volta coinvolte nel gioco di ombre sullo sfondo, vengono rese giganti come a rendere visiva, tangibile e poetica altresì l’enormità emotiva delle reazioni e delle sensazioni provate dai personaggi che popolano la vicenda. Stesso discorso vale per i piccoli oggetti, animati dalla danza, dal gioco e da una narrazione attenta a relazionarsi costantemente con tutti gli elementi scenici.

Un gioco che dona leggerezza e semplicità ad una vicenda che ha il suo propulsore in temi forti come l’abbandono, la guerra, la nostalgia e l’adozione. Ma anche quello di una costruzione di sé che parte dalla disgrazia di nascere in un luogo sciagurato, già di per sé, questo, un elemento narrativo che si colloca oggigiorno senza distinzioni di tempo e spazio.

In un teatro contemporaneo sempre più avvolto nella dipendenza dalla tecnologia, troppo spesso impiegata in modo scontato o poco funzionale, la regia di Fabrizio Montecchi ci restituisce un gioco teatrale vivo e che vede unicamente l’attore al centro dell’azione. Un lavoro che torna a conferire una grande dignità al teatro per l’infanzia, in grado di farci capire che questo è un genere in cui la cura e l’attenzione del “come si racconta” sono le chiavi necessarie per stabilire il contatto con lo spettatore senza distinzione di età.
In questo senso il teatro per l’infanzia non è solo destinato ai bambini.
È un teatro che serve a restituire l’infanzia anche a genitori, nonni e zii.

Dario Del Vecchio

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