
Dal 2001 al 2014 ebbe luogo in Afghanistan la missione ISAF (International Security Assistance Force) promossa dalla NATO e autorizzata dall’ONU, di supporto al governo afghano nella guerra contro i Talebani e Al-Qaida. La missione fu supportata da una forza internazionale che impiegava circa 58.300 militari provenienti da una quarantina di nazioni. Tra queste, dall’agosto del 2003, l’Italia contribuì con circa 4.200 unità, risultando il quinto fornitore di truppe. Sono 53 i militari italiani caduti durante la missione, sono 3 le madri a prendere voce nello spettacolo di Giuliana Musso “Mio eroe”, in scena al Teatro Elfo Puccini fino a domenica 18 febbraio.
Racconti intensi, potenti nella loro semplicità nuda ed essenziale, lievi e allo stesso tempo drammatici e sconvolgenti. Le madri di Mauro, Stefano e Michi ricordano i figli – le loro aspirazioni, i loro caratteri, alcuni episodi dell’infanzia e della giovinezza, le loro morti – e si rivolgono a noi, con domande, provocazioni, tenere e rabbiose confessioni.
Cullate dal dolce e malinconico suono dei violoncelli (musiche a cura di Andrea Musto), le tre donne si alternano in un piccolo fazzoletto di prato fiorito – ricordo della Valle delle Rose in Afghanistan dove muore Mauro, un cimitero militare, il Giardino dell’Eden (scene a cura di Tiziana De Mario) – assumendo sguardi, voci, parlate, corpi ben precisi: le mani raccolte in grembo, la camminata nervosa, la posa di tre quarti… Eccole, tre donne diverse tra loro eppure indissolubilmente unite dal lutto, ciascuna con espressioni e reazioni differenti ma il dolore è uguale, profondo e inconsolabile. È il dolore della Mater dolorosa: Maria alla croce, le donne Troiane che piangono i figli e i mariti uccisi dagli Achei, Madre Coraggio che non può, anzi, non deve piangere se vuole sopravvivere alla guerra. Giungono riverberi autorevoli dalla poesia, dai racconti epici e dalla classicità, richiamando il pathos e il senso di pietà cui siamo soliti associare queste figure di madri dolenti, ma in questo caso non possiamo rifugiarci nella distanza del tempo o della metafora poetica: il racconto in “Mio eroe” tratta infatti di avvenimenti attuali e niente è stato inventato né “infiorettato” dalla retorica.
Pluripremiata per il suo lavoro in ambito drammaturgico (Premio CassinoOff 2017 e Premio Hystrio alla Drammaturgia 2017) e già nota al pubblico del Teatro Elfo grazie ad altri suoi magnifici spettacoli di “teatro d’indagine / giornalismo teatrale”, Giuliana Musso scrive le sue opere a partire da “testimonianze” e da un ascolto molto preciso e attento del reale, che lei definisce come “l’esperienza concreta delle singole persone, la vita vissuta, che io amo chiamare il vivente. La testimonianza del vivente mi consegna un dato che non è già stato tradotto o trasferito sul piano teorico e che quindi non è stato ripulito da quei dettagli che rivelano la complessità delle vicende, la vulnerabilità e l’unicità degli esseri umani.” È questa umanità, fragile e struggente, che l’eccezionale talento di Giuliana Musso, nella duplice veste di autrice e attrice, ci presenta con cura, pudore e partecipazione sul palcoscenico, portando e assumendo un estremo rispetto e senso di responsabilità nei confronti del pubblico e di coloro di cui si fa “testimone”. Riuscendo a svanire nel personaggio grazie a una tecnica di recitazione raffinata e scrupolosissima, lascia che sia il vivente ad apparire in primo piano, restituendo emozioni ma anche spunti di riflessione che sollecitano questioni etiche e politiche.
“Cosa fa il teatro del vivente, il teatro civile? Si infila nelle pieghe, nelle crepe del racconto, crea uno spazio negli interstizi e va a scovare il paradosso, le contraddizioni.” Ed è ascoltando le riflessioni, talvolta pacate altre volte furiose, delle madri di “Mio eroe” che si va oltre alla commiserazione e alla retorica di circostanza e si scoprono tanti, troppi paradossi: il paradosso di ragazzi che muoiono durante un’operazione militare ma sono in tempo di pace e non sono quindi in guerra; il paradosso di una missione di pace per cui vengono spesi soldi, tantissimi soldi, “con cui ci potevano comprare tutto l’Afghanistan e ci facevano pure le piscine”; il paradosso di una missione di pace tanto sanguinosa, tanto nei risultati inutile; il paradosso di una mitologia dell’eroe che si schianta contro le esistenze comuni, quasi banali, di giovani vite; il paradosso di colpevoli che non sanno di esserlo e si ritengono vicini alle vittime: noi, che siamo lo Stato, votiamo e accettiamo che ragazzi di vent’anni mettano a rischio la propria vita, come se contasse meno della nostra.
Come recita il foglio di sala, “in queste testimonianze femminili il tema della pace e il tema della maternità risuonano per quello che ancora sono: pubblicamente venerati e segretamente dileggiati.”
E allora, non possiamo limitarci a piangere e ricordare con orgoglio il “tributo di sangue degli eroi”, espressione così pomposa e vuota da sembrare quasi un insulto. Gli eroi dello spettacolo, Mauro, Stefano e Michi, non possono più essere solo le fotografie di sconosciuti che appaiono di tanto in tanto nei telegiornali e dopo un breve messaggio di commiato si perdono nella memoria. I racconti delle madri che li ricordano nella loro normalità – Mauro il generoso, Stefano che si perde da piccolo nel supermercato, Michi che suonava il violoncello – ci dimostrano che è necessario ripartire da un’intelligenza più autentica, più vera, più profonda. È il paradosso di un dolore così insopportabile che permette alle madri di rivelare con lucidità le assurdità della guerra, è l’intelligenza dei sentimenti che ci permette di intuire quali sono le scelte giuste, è l’esperienza di questo dolore straziante che ci fa comprendere razionalmente come difendere la vita.
Marzorati
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