Sin dall’inizio, le intenzioni sono dichiarate esplicitamente: si vuole ritornare a Dioniso, ai suoi ditirambi, e ai suoi riti. Ma questo dio dell’ebbrezza, nume tutelare, da più di venticinque secoli, del teatro, si aggiorna nella forma del dj set; mentre gli interpreti riproducono un cerchio umano che si muove, come riproduzione di un eterno ritorno, mirabile versione coreutica, e insieme sintetica, della condizione esistenziale. L’unico modo per rompere il cerchio è trovare un gesto altro, rivoluzionario, una hybris pronta a sfidare le divinità. E Medea riesce a tener testa anche alle divinità maschili, alla dike, ai dadi truccati della giustizia superiore. La temperatura emotiva sale e, con essa, i bpm, che segnalano una frequenza cardiaca della vicenda pronta ad esplodere. Ci si prepara, dalla parte della platea, ad una corsa giù, nel cuore di tenebra dell’irrazionale, e la strega della Colchide è una sorta di novella Alice che ci ricorda, lisergicamente, che una pastiglia drammaturgica potrà renderti più grande o più piccolo, ma le sue saranno sicuramente fatali.
Nell’essenzialità di una scena che mostra le sue ossa architettoniche, svelando tutto il nero con cui, idealmente, l’ha dipinta il Paint it black dei Rolling Stones, sotto l’implacabile neon a illuminare il tremendo esperimento sociale, si svolge la vicenda della protagonista. E l’intuizione del regista Filippo Renda, che partecipa, nelle vesti di interprete, allo spettacolo, è questa: Medea è maledettamente scomoda, ma necessaria. E’ quella forma che ribolle negli oscuri territori dell’inconscio collettivo, chiedendo solo un nome e un tempio dove potersi riconoscere ed essere riconosciuta, al pari delle Erinni dell’Orestea. Rifiutata, esiliata, tradita da un mondo decisamente androcentrico, trova una propria, seppur devastante, identità. E’ teatralmente potente l’evocazione di una sorta di Ecate, divinità femminile , pregata, invocata, a più riprese, dalla protagonista; richiama quella società femminile, matriarcale, cancellata, manipolata e abusata da Zeus e dagli altri dèi olimpici. La protagonista rivendica la propria identità di genere; è , nel senso aristotelico del termine, un politikon zoon, un animale politico, espulso dalla polis e pronto a divorare, come forma più spietata di vendetta. Il suono di un tamburo ci ricorda che siamo decisamente nel territorio di un rito, dalle pulsazioni proprie; una sorta di tragedia No giapponese, in cui i sottotesti, l’energia emotiva, psichica, e financo spirituale della scena, si sostanzializzano nella percussione di una membrana. Sono abilmente sonorizzate , evidenziate e grassettate tutte le forme di vocalità di Medea.
Si ascolta una sorta di preverbale che la dice e la racconta all’inizio, nel mezzo, e, soprattutto, nel finale della vicenda. Le battute diventano preghiere, imprecazioni, frammenti, schegge di follia e orrore di un coro che può solo, individualmente, chiosare la vicenda. Medea agisce, è l’eroina attiva, in mezzo a personaggi già determinati, passivi, prevedibili. Giasone è una figura grigia, un carrierista che già esprime, nella sua verticalità immobile, tutta l’essenza del suo personaggio. La vita vive alle latitudini della protagonista, anche nel momento in cui pianifica tutta la sua crudele nemesi. Ecco: finalmente, e con forza, si ricorda alla platea quanto la tragedia di Medea rappresenti un unicum, in cui il meccanismo già evocato di hybris e dike vive nello stesso personaggio, in una magnifica, eccezionale, sovraimpressione. Nessun deus ex machina, per sciogliere la vicenda, è previsto. Piuttosto, la strega si carrucola da sola, sospesa sulla scena, in un territorio di nessuno, tra fisica e metafisica; nel suo corpo e, soprattutto, nella voce, si realizza una sorta di transustanziazione di una divinità femminile, che precede tutte le altre, e ride persino dell’implacabile legge del fato. I dialoghi sono restituiti a una dimensione epica, e i personaggi intorno a Medea sembrano i pezzi mossi su di una scacchiera, benché, fin dal principio, si abbia l’impressione che sarà la donna a dare scacco matto.
Anche il momento di evocazione dell’atto sommamente doloroso – di cui si può, nella migliore tradizione tragica, portare soltanto la devastante eco, ma la cui vista diretta sarebbe freudianamente insostenibile – ha una meravigliosa efficacia, unendo la narrazione all’azione, e sintetizzando, in una riuscita forma scenica, Brecht e il teatro d’immedesimazione. L’attrice Alice Spisa si immerge, senza paura, nell’acqua cupa, di cui non si intravede il fondo, di questa Medea, restituendoci una creatura in grado di dimostrare anche la particolare razionalità della “pancia”, lo spirito apollineo contenuto in quello dionisiaco, come in un’immagine del cerchio del Tao. Insieme a lei, tutti gli interpreti meritano il generoso capitale di applausi offerto dalla platea.
Danilo Caravà
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