Recensione: “Lustrini”

lustrini
foto Laila Pozzo

Vladimiro ed Estragone sono sempre là; hanno cambiato nome, certo, ma non mancano al loro appuntamento esistenziale con la scena. E, come di consueto, dopo un po’ ci si scorda di quell’attesa metafisica, di quel God(ot) che tarderà fatalmente, ancora una volta, per concentrarsi su quella carne viva, sporca, piena del vento fermo del mistero umano, che ha la forza dei personaggi sacri caravaggeschi, col sudiciume della vita addosso. In principio, dunque, non c’è il verbo, ma la carne, offesa, martoriata, rabbrividita, dolorante, di due clochard, sul bordo estremo dell’umano vivere. La lezione di Testori, l’autore Antonio Tarantino la conosceva eccome: non c’è spiritualità che non cominci dal corpo, e, proprio come gli impossibili dèi nietzschiani, anche i protagonisti devono fare i conti con il loro bassoventre. Il corpo porta tracce dell’assoluto in forma di inguaribile ferita, di sensazioni di percezione diretta, tattili, le stesse che Plotino utilizzò per tentare di descrivere l’indescrivibile.

Il martirio avviene su di una panchina, tra dialoghi pinteriani, testoriani, beckettiani, che prendono letteralmente a schiaffi la vita, partendo da quella verità dura, ma necessaria, fatta di dolore e sofferenza. La coppia è quella di clown bianco e augusto, dello spirito apollineo e di quello dionisiaco, di un Don Chisciotte fatalmente femmina nello spirito, e di un Sancho Panza che, a furia di tavernello prima maniera, si è scrollato di dosso tutti i tratti politically correct del suo carattere. Serve sempre una coppia, perché il singolo possa conoscersi: l’identità è un faticoso percorso, fatto di due esseri che si fanno specchio l’un con l’altro. E, allora, si scende giù giù nel girone infernale; si ripassa la propria parte, il piano per svuotare le tasche del ricco chirurgo, ma la vita, sorte puttana e vigliacca, chiama gli ultimi giri di poker esistenziali, proprio quando i due sono “sotto” di un bel po’.

Le parole sono vere, grumose e incandescenti, ci si brucia l’anima ad ascoltarle. Sono fonemi stagionati nella carne del drammaturgo: non più messaggeri, ma essi stessi dei cristi in croce, ed ogni sillaba battuta è un nuovo colpo di martello sui chiodi. Luca Toracca, che firma anche la regia dello spettacolo, è semplicemente un paio d’ali, appesantite, anzi, devastate dal fango della vita. E’ un angelo azzimato, malato, una figurina uscita giusto da un quadro di Chagall, che ti sembra di doverla tenere con lo sguardo, per paura che ti scappi via, in cielo, come un palloncino. E’ una tragedia fatta di seta, di sussurri, di parole che, malgrado le offese della vita, cercano ancora, disperatamente, un’amorevole gentilezza. E, alla platea, arriva il canto offeso di un cigno costretto a caracollare sulla terra ferma, un grido d’amore strozzato in un corpo che fatica a rispondere, un Gesù Cristo che non ha paura di affrontare il martirio con i suoi lustrini.

Ivan Raganato mette tutta la sua fisicità a disposizione del personaggio; è un terremoto esistenziale, e, proprio come una creatura della una canzone di De Andrè La città vecchia, “cerca la felicità dentro un bicchiere”, sapendo che “ci sarà allegria anche in agonia con il vino forte”. Incarna un Dioniso che cerca di coinvolgere, nella sua strindberghiana danza di vita e morte, una particolare Arianna piantata a Nasso dalla vita, e, come risorsa, ha solo questo stranissimo anti-eroe. Parlandosi, si tengono vivi, e, non potendosi scaldare con la stufa a kerosene del gobbo, scaldano almeno la loro temperatura emotiva; dicendosi le verità più scomode, si mordono e si abbracciano disperatamente, fino a farsi male, con la forza selvaggia dei due esseri del mito, agognanti l’unità originaria dell’essere androgino. Proprio come nella didascalia beckettiana, non si muovono, sono sempre lì su quella panchina, mai scomparsi e, forse, mai apparsi; al di là del tempo, sono offerti in sacrificio al pubblico, per la nuova ed eterna alleanza del patto teatrale, ostie consacrate dal dolore e della sofferenza. E la platea tutta non può fare a meno di comunicarsi, e di sciogliere le mani in un lungo e generoso applauso.

Danilo Caravà

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