Ci sono spettacoli che sono delicati come la carezza che ti sfiora la guancia, con la delicatezza con cui si maneggia un baco da seta, e questo è uno di quelli. La neve, che a un certo punto irrompe nella rappresentazione, è, certamente, il simbolo più adatto ad esprimere certe cose sottili dell’aria; queste ultime sono in grado di condensarsi negli umori emotivi di questa rappresentazione, e ti cadono nel cuore, proprio come direbbe Mogol, senza far rumore. Tutto è così vero, così fragile come un cristallo sottilissimo, che temi di farlo esplodere, anche solo con uno sguardo più intenso. Che piacere intenso è poter osservare queste piccole grandi anime gozzaniane, che hanno più dei, nei loro delicati sorrisi, di quanti ne abbia tutta la tragedia di Euripide. Un uomo, un sognatore, e una donna, con dentro l’attesa di Vladimiro ed Estragone, bastano questi due elementi per far detonare un incredibile testo scenico. Signori e signori, questa è la vita, così come è per se stessa, con tutta la sua struggente solitudine ed il suo invincibile desiderio di superarla. Questa, parafrasando l’incipit del racconto di Dostoevskij, è una serata teatrale meravigliosa, una di quelle che ti fa pensare come può esserci gente cattiva sotto questo cielo del palcoscenico, illuminato dalla presenza di due figurine dei quadri di Chagall, che si trovano nella solinga cattività dei paesaggi urbani di Hopper. L’autore russo aveva ancora stupendi angeli nello sguardo, ancora più veri di quelli che reclamava Swendenborg a Parigi, quando ha scritto “Le notti bianche”. Ed è commovente osservare quanto un sognatore possa cercare di mettere l’infinito nelle piccole cose, e come una donna rimanga stupita dello sforzo di incartare la realtà prosaica con la forza del sogno. Il puer eternus di Jung, il fanciullino di Pascoli non solo vivono in questa pièce, ma trovano il loro riscatto, la volontà di abbracciare e di riconciliarsi con quella voglia, del nostro io dell’infanzia, di stupirsi del mondo, di se stessi e degli altri.
Ogni gesto, ogni fonema, è animato dalla causa prima, dal motore intenzionale di questa frase pascoliana: “E’ dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, ma lagrime ancora e tripudi suoi”. Ed è vero più che mai, attraverso la testimonianza di questo lavoro teatrale, che nasce un mondo per ogni persona che nasce al mondo. Anzi, per il sognatore ne nascono tanti, tutti lì, ordinati come tanti soldatini, nella scatola dell’anima, pronti ad essere mostrati solo a particolari occhi, solo per un’unica osservatrice, solo per quell’istante convissuto con il cuore di Nasten’ka. Dove non arrivano le parole, dove non ce la fanno da sole ad esprimere l’immediatezza del proprio sentire, lo stupore di esserci, e di vivere il mondo da dietro a una finestra, può arrivare una tastiera ed un canto; a volte è delicato, come certi passaggi digitali tra i tasti di Chopin, a volte urlato, graffiato, per scavare nel cielo, fino a farsi sanguinare la laringe, una via di fuga. Tutto è così spontaneo, tutto si propone nella sua naturale evidenza, come un prato abitato da piccole laboriose creature. Stefano Cordella, ideatore e regista di questo spettacolo, tratta le parole, i silenzi, le reticenze, le risate di imbarazzo, come diamanti purissimi da far brillare al meglio davanti agli occhi stupiti della platea tutta. Persino l’esigente Stanislavskij direbbe, osservando questi due interpreti,: “Ci credo, ora decisamente credo a tutto questo!”. Nessun arabesco, ghirigori retorico, nessun bronzo per placcare l’organo di fonazione, nessun alto coturno per drammatizzare il copione, è presente, piuttosto una teologia negativa della recitazione, un certosino lavoro di sottrazione, fino ad arrivare quasi all’invisibile, che come ci ricorda, Saint-Exupéry, è essenziale. Si sente decisamente l’aroma delle emozioni, quelle pazientemente lievitate attraverso il lavoro di costruzione sul personaggio e su stessi. Diego Finazzi incarna un sognatore con una tale esilità, trasparenza esistenziale, da poter volare via al primo colpo di vento. E’ un Clark Kent che può solo sognarsi il suo Superman. Intenerisce il cuore più di un tramonto. Se ne sta lì in scena, quasi scusandosi per il disturbo di essere al mondo, si cura l’anima con la medicina dei sogni.
Le sue parole scendono come pioggia molto sottile, una di quelle che non ti bagna, ma ti regala quella leggera umidità, che ti fa sorridere e insieme ti immalinconisce. Alma Poli è tutta anima, negli sguardi, nelle silenziose presenze, nei fonemi che hanno la caratteristica di un singolo fiocco di neve; mostrano, avvicinandosi ad essi, cristalli, figure geometriche che incantano per la loro perfezione, espressa nell’infinitamente piccolo. E viene davvero voglia di abbracciare di applausi queste due creature, che chiedono al mondo di colorarsi della loro naturale poesia.
Danilo Caravà
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