Calderòn de la Barca, nell’atanor (ossia, nel fornello alchemico drammaturgico) del poeta Loi, diventa “la caldera”: un linguaggio impastato di sonorità del dialetto milanese, una sorta di grammelot in grado di donare, alla vicenda de La vita è sogno, ulteriori vicinanza e verità. L’operazione, sostanzialmente, è stata quella di levare la polvere accademica ad un’opera teatrale, togliendo quest’ultima da iperuranici e imperscrutabili cieli di complicatissima esegesi, per restituirla viva, pulsante e palpitante, sporca e vivacemente rattoppata come i cenci dello zanni Arlecchino, divenuti poi il costume che oggi conosciamo. Il Duca nella torre, interpretato da un efficacissimo Giovanni Crippa, misura la materia onirica e quella concreta con la manualità di un filandiere, promesso sposo di una realtà tutta da definire e inventare.
L’occasione si fa preziosa anche per lo sdoganamento definitivo del leggio, verso cui implacabili addetti ai lavori, con piglio papale, sogliono lanciare il loro più convinto “excomunicabo vos!”. Qui, l’esercizio del foglio sfugge, decisamente, alle pigre rimasticature di una qualche serata poetica in ridenti cornici vacanziere, e si colora di indiscussa emotività. Una generosa forza centrifuga oppone gli interpreti all’attrazione gravitazionale del leggio, e permette loro di esplodere in tutto il loro vivacissimo cromatismo interpretativo. La scenografia ideale è già lì pronta, più filologica che mai: il Castello Sforzesco. Le parole di Loi sono un pane rustico, croccante; la loro matericità, unica, rappresenta il pacchetto completo dell’antica trilogia tragica delle Dionisie ateniesi, unita al dramma satiresco. I toni opposti sono sapientemente tenuti in un equilibrio funambolico impeccabile, evocante i capolavori del Porta. Gli interpreti attendono, su una sedia, di entrare in scena, come nell’Arlecchino strehleriano; sono pronti, dall’immobilità zen di una consapevolezza silenziosa e partecipe, a entrare in azione, per mostrare tutto il daimon gaudente in loro. Si saluta con piacere, finalmente, un vivace gioco al rilancio, di squadra, in cui, per citare una felice espressione di Parenti, ci si lascia recitare dall’altro. Assistiamo a un sano e sportivo match attoriale, in cui l’asticella di difficoltà e maestria viene, battuta dopo battuta, posta sempre più in alto. I personaggi sfilano sulla scena, e si muovono, come coraggiose ombre della caverna platonica: personaggi onirici o reali, o semplicemente personaggi, in cerca del loro satori, ossia dell’illuminazione zen, della loro verità, che possa essere tale nel sogno.
Ma, se Cartesio aveva trovato il suo principio, il suo ubi consistam, nella ragione pensante, nel dubbio che è quantomeno certo del suo dubitare anche nel terreno impalpabile e scivolosissimo del sogno, qui si trova un principio etico, un Bene da perseguire con ostinazione e pervicacia, anche negli sfumati territori di Morfeo. Giovanni Crippa è in stato di grazia; con la classe ed il metodo di un raisonneur prestato al mondo onirico, e con la parlata materica, tannica e corposa di un Ruzante che iera vegnù de campo, incanta, letteralmente, la platea. Piega la sua fiera e sottile verticalità al vento potente della vicenda, senza mai spezzarsi, senza mai perdere il senso di orientamento interpretativo. Inesorabile, incalzante, duro, scomodo, tenero, riflessivo, incarna, con proteiforme efficacia, tutti gli stati d’animo che, via via, il protagonista è costretto a vivere a tappe forzate, per costruire, nel giro di poche giornate, l’educazione sentimentale ed etica di una vita intera. Marco Balbi fa risuonare, potente, lo strumento d’ottone della sua laringe, e lo rende la tromba dell’opportunismo politico, da uomo per tutte le stagioni, che cerca sempre un guadagno in ogni possibile lotta di potere. Giovanna Bozzolo gratta pezzi d’anima dai suoi fonemi, donando al personaggio una femminilità unica. Ruggero Dondi è un Duca padre dalla tumultuosa energia shakespeariana; la sua voce fa il paio con le potenti e suggestive percussioni di Simone Benvenuti. Alberto Mancioppi mette la sua generosa e marziale fisicità al servizio del personaggio, controcanto di saggezza che “suona” per il protagonista.
Francesco Migliaccio è impareggiabile nel mostrare l’eterno tentennare, gli scricchiolii e le crepature di una maschera aristocratica, che svelano la pelle della fragilità. Marina Rocco, verve incontenibile da fille sauvage, scrive i fonemi sulla scena con il rossetto della sua grazia, e della sua androgina esplosività. Antonio Rosti è uno zanni eccezionale: guarda con riverenza, dal basso, le vicissitudini, sperando di non essere mazziato e tenuto a digiuno. Infine il regista, Daniele Abbado, costruisce geometrie di movimento e di presenza scenica solide ed essenziali, in grado di tenere ben saldo l’edificio della vicenda tutta.
Danilo Caravà
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