Recensione: “La tribù del calcio”

tribù del calcio
la partita_carcere di monza

L’attore non ha paura di tirare il suo calcio di rigore, e si siede in proscenio a distanza di un fiato dalla prima fila. L’intuizione improvvisa sembra raccontare proprio questo, che il monologo sia l’attesa che precede quel penalty kick, la verbalizzazione di quello che gli occhi dell’interprete raccontano alla platea nella tensione che precede il tiro. Il teatro incontra il calcio, e racconta quello che Pasolini descriveva come nuovo dramma sacro, in tono colloquiale, confidenziale, e poco a poco, parola dopo parola, si ha l’impressione di ascoltare una sorta di aedo sportivo, ispirato dalla Musa del centrocampo, impegnato a raccontare storie di eroi e di dei, attraverso i quali il Logos ci impiega giusto un attimo a ritrovare l’energia selvaggia, evocatrice del mithos.

Sembrano trovare conferma le parole di Montale secondo il quale, nel calcio, si passa, nello spazio di un grido di esultanza, dallo stadio in cui si svolge la partita, ad un altro stadio, quello infantile, ma è un’infanzia mitica, quella che si riconquista, un’età dell’oro, una Eldorado, popolata di fanciullini pascoliani e delle songs of innocence di William Blake. E sugli spalti trovano posto tutte le figure dell’inconscio collettivo, la catarsi aristotelica, il momento sacro di purificazione teatrale coincide con il gol, e ogni fuori-classe, ogni fantasista, diventa il deus ex machina euripideo in grado di sciogliere i nodi della vicenda calcistica. D’altra parte, la drammaturgia, buttando un occhio al testo La scimmia nuda di Desmond Morris, ci ricorda anche che questo gioco è la rievocazione, ed insieme una sublimazione, di un rito di caccia, di un istinto atavico che riemerge e fa mostra di sé come un fiume carsico, nel quale la porta avversaria rappresenta la preda, e la palla è l’arma. In questo sport i vari eroi della mitologia greca, Achille, Ettore, hanno il nome di Pelè, di Ghiggia, il calciatore uruguayano che infiniti addusse lutti ai tifosi brasiliani.

Si ritorna pagani durante una partita di calcio e gli dei si moltiplicano, o vengano abiurati, tutto è sospeso nel pallone, che racchiude in sé il destino delle Parche, o dell’Ananke, di una divina necessità imposta da enti superiori. Ogni fonema di questa piece sta lì a testimoniare quanto la febbre del calcio, questa malattia che, come una vampa, scalda il cuore ed il viso, non sia molto dissimile dalle peste del teatro evocata da Artaud, un morbo destinato a riportare l’uomo al grado zero, una forza, insieme distruttrice e rigeneratrice, in grado di far cadere le maschere, e di metterlo a nudo di fronte a se stesso. Gianfelice Facchetti sa trattare bene la palla drammaturgica, la tiene idealmente in equilibrio sul piede, fa palleggiare con maestria i suoi fonemi, ed i suoi fiati seguono l’accelerazione con cui inizia la sua cavalcata solitaria verso la porta. E’ un po’ costipata questa voce, calda, leggermente grattata, ha su di sé la rugiada che copre il prato di un campo di calcio, e piace per la sua verità, per il suo farsi una continua radiocronaca dell’evento calcistico, rievocando la stagione in cui era principalmente la radio, il medium caldo di mcluhaniana memoria, a dover restituire l’epicità di queste imprese sportive.

La Banda del fuorigioco accompagna l’attore con i suoi ottoni ed i suoi ritmi batteristici, e diventa una sorta di coro, in grado di duettare vivacemente con l’interprete, un novello Prometeo che racconta come rubò al pallone agli dei per farlo rotolare tra i piedi degli uomini. La scenografia è concentrata, trova il suo fuoco visivo in una coppa, oggetto totemico irrinunciabile per il gioco calcistico, e gradatamente il palcoscenico si riempie di palloni che colonizzano lo spazio, diventano la sostanzalizzazione dei racconti. Facchetti mantiene, come esperto giocatore, il possesso palla in questo particolare monologo, ha visione del gioco, e riesce a tenersi smarcato riuscendo nell’impresa di capitalizzare l’attenzione dello spettatore. Anche i tifosi più tiepidi, persino gli agnostici nei confronti di questa particolare religione sportiva, non potrebbero non scaldarsi al fuoco della voce dell’attore che non arresta per un attimo il suo talking blues con la platea.

Due sono le doti che riesce a dimostrare in questo spettacolo, la passione ovvero l’urgenza e la necessità di una parola calcistica che gli fa brillare gli occhi, e l’umiltà del raccontare, uomo fra gli uomini, come una palla fra i piedi di un calciatore possa diventare mitologia. E, parafrasando la canzone di De Gregori, un attore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, tutte caratteristiche che il protagonista conquista sul campo, chiedendo ai polmoni tutta l’aria che c’è, ed anche quella che non c’è, sollecitando l’anima a farsi ancora più anima, a tracimare da se stessa per donarsi alla platea. Ed alla fine lo spettacolo, di quella rincorsa lunga il tempo della rappresentazione, idealmente tira il suo rigore, è una palla stregata, imparabile che si piazza proprio lì, all’incrocio dei pali, solo un attimo di silenzio e poi il pubblico esprime tutta la propria esultanza attraverso uno scroscio di meritati applausi.

Danilo Caravà

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