Recensione: “La nebbiosa”

paolo trotti

Milano è una donna la cui identità è un puzzle: riservata ma volitiva, violenta ma distante, la sua bellezza e le sue brutture sono nascoste a chi non si dà il tempo per osservarla. Il suo spirito lo si può percepire non sul patinato Naviglio Grande, ma su quello Pavese, quando si cammina alle 4 di notte e le uniche compagne sono le verande chiuse e, forse, una busta che galleggia nel canale; la si riconosce nelle zone industriali e nel fruscio di una macchina che passa distratta; la si incontra sulla Circonvallazione, quando guardando fuori dal finestrino della 90, al ritorno dal lavoro, si è talmente stanchi da non esseri sicuri di stare tornando a casa. La sua attitudine è nei parcheggi nelle sere d’estate, nei bar delle zone residenziali, ad una fermata dell’autobus sotto a un cavalcavia.

Ne “La Nebbiosa” di Paolo Trotti e Stefano Annoni si percepisce questa Milano “zucchero e catrame”, come la cantò Dalla. Una città vicina all’Europa, ma che, alla fine degli anni ’50, rivela ancora il retaggio di un’Italia che è stata principalmente fascista, ha subito un difficile dopoguerra e poi è stata investita dalla ricchezza durante la generazione dei baby boomer. Il dramma è tratto da un inedito Pasolini, che scrisse la sceneggiatura nel ’59: il suo documentarismo lo portò a esplorare questi luoghi, per arrivare fino all’Hinterland.

Nel testo si profilano i palazzoni, le sagome di insonni che vagabondano in una notte invernale in zona San Siro. Le silhouette dei personaggi erranti creati dall’autore bolognese sono evocate dalla fotografia e dalle luci, manovrati in parte anche dagli stessi attori sul palcoscenico, e incorniciano la scena e gli spettatori, come i fari di una macchina nel buio. L’icona della sagoma è ripresa anche nella scenografia, che fa uso di uno sfondo bianco dietro il quale i personaggi mutano, ballano, recitano sé stessi: il richiamo al cabaret è funzionale, oltre che all’atmosfere, al racconto. La narrazione parte infatti in uno dei night club, come quelli che Pasolini esplorò, nel quale il presentatore racconta le vicende della sua infanzia nella periferia di Milano. L’uso delle sagome ricorda anche le arcaiche ombre cinesi, le origini dell’istituto spettacolare, il mondo delle marionette, citato inoltre nelle scelte dei costumi e degli accessori scenografici. Il regista crea uno spettacolo nello spettacolo, un mondo di ombre.

È però, tramite l’uso evocativo della parola teatrale che vediamo il legame con un altro medium caro a Pasolini: il cinema. La sequenza che introduce i numerosi personaggi li presenta tramite un montaggio verbale di primi piani, che inquadra le loro identità con pochi aggettivi, delineandone la physique du rôle con un colpo veloce di spatola. Il ritmo veloce e l’utilizzo dei vocaboli ricordano quasi una pubblicità televisiva: riecheggiano così nella memoria i leziosi eroi mediatici della generazione che visse il baby boom. È anche tramite questi espedienti registici e drammaturgici che emerge la denuncia pasoliniana de “l’inferno neocapitalista”, della nascente società dei consumi, rappresentata dallo sbando fisico e psicologico dei giovani che sperimentano una nascente metropoli, che non sanno darsi posto, distruggono quello che abitano e vogliono “morire con l’oro addosso”. La rabbia e le oscenità di questi teddy boys richiamano le immagini sacre dissacranti dei film di Pasolini, le crocifissioni e le Madonne; nel loro linguaggio sferzante e nell’uso del gergo e del dialetto, riconosciamo perfettamente il padre della sceneggiatura.

Questi giovani che odiano i loro padri, il cui bigottismo però si rivelerà in “Comizi D’amore”, sono fotografati in momenti visivi dal forte impatto. La suddivisione dei quadri è data dal monologo evocativo di Stefano Annoni e dall’accompagnamento della batteria di Diego Paul Galtieri: i ritmi riprendono le sonorità Jazz e rockabilly, ma riecheggiano anche il rock italiano di Jannacci e del primo Gaber. Possiamo riconoscere anche alcuni dei temi milanesi del creatore del Teatro Canzone: la città che opprime l’uomo, la microcriminalità, le paure davanti al cambiamento del mondo contemporaneo. Nel brano “La paura” il personaggio cammina per il centro semideserto di Milano e ha, a torto, paura di uno sconosciuto che sta solo passeggiando come lui. Ma nel centro semideserto de “La Nebbiosa” sono i protagonisti che, camminando per le strade nella notte di Capodanno, incutono invece un motivato timore: la loro violenza fisica e i soprusi psicologici ricordano i personaggi di “Arancia meccanica”, il cui libro uscirà 3 anni dopo rispetto alla scrittura della sceneggiatura pasoliniana.

La violenza è espressa anche dall’uso della voce, che esplode e riecheggia nel cortile interno del Castello Sforzesco, e dalla fisicità dei due attori, che alternano una drammaturgia dai gesti lenta e a tratti surreale, ad un uso del corpo pregnante e impetuoso. Stefano Annoni passa da un personaggio all’altro con agilità: interpreta il teppista, il triste, l’omossessuale che viene pestato a morte – fantasma fin troppo vivido della figura di Pasolini -, il bambino, che è narratore in prima persona della vicenda. La sua perdita dell’innocenza coincide con la perdita d’identità del popolo italiano che Pasolini temeva e denunciava: vengono in mente i bimbi di Milano di Guccini, lasciati a loro stessi nella solitudine del rumore.

La fascinazione pasoliniana per la tradizione popolare all’interno dello spettacolo ricorda inoltre la prospettiva di Buzzati nel suo libro più intimo, “Un amore”, e le sue immagini di “Poema a fumetti”: i due intellettuali, così diversi, danno vita ai bagordi della Milano da bere, all’erotismo e alla violenta malinconia di queste sagome erranti, confuse e deformate, divise tra Via Saterna e l’Ade, tra il denaro e l’abbandono.

Irene Raschellà

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