Basta aggiungere a San Giovanni un buon bicchiere di Pernod, per trovare tutta la meravigliosa magia di questo spettacolo. La parola è davvero principio: ti prende per mano, con lo spirito di un Bacco pronto a vincere le uggie dell’Arianna di turno, e ti fa, idealmente, danzare una valse francese, accompagnata da una fisarmonica che sembra fatta apposta per molcerti il cuore. Carlo Cecchi gioca il finale di partita del suo personaggio, nei bistrot e negli anfratti della Ville Lumière, in un modo tutto suo. I suoi fonemi, è un po’ come se fossero preziosi sorsi di un vino decantato: li lascia vivere nella bocca, lascia che indugino nella laringe, e poi su, su, fino alle labbra. Regala loro una spettacolare indolenza, un otium filosofico, un tempo per prendere coscienza del proprio corpo fonetico. Ascoltare così il testo di Roth, significa, prima di ogni altra cosa, sentire le frasi farsi carne, farsi qualcosa di tangibile che sta lì, di fronte al bancone dove è seduto il protagonista; qualcosa che ti prende , che t’aggancia, che risveglia nella platea lo spirito atavico con cui si ascoltava l’antico aedo, alle prese con l’ira di qualche Achille. La bella intuizione della Shammah è quella di rendere la dimensione metanarrativa del racconto: la parola letta dal libro si fa corpo che si fa nuovamente parola, nel perfetto gioco dell’eterno ritorno, dell’uroboro che si morde la coda. Questa storia ubriaca lo spettatore, ma lo fa in senso dionisiaco, creando una leggera ebbrezza in grado di sollevarsi dalle miserie mondane, per trovare una straziante poesia nella vita di bevitore.
Quello che, tenacemente, appare in ogni intenzione , in ogni sottotesto, in ogni esitazione, in ogni segno di punteggiatura della recitazione del protagonista, è un bisogno estremo di ritrovare le ali perdute, di riscoprire la levità di un volo, annegata nei bicchieri dei troppi Pernod. Un po’ come diceva Eliot, gli angeli vengono a trovarci, e ci si accorge di loro solo quando sono già passati; solo quando un povero cristo trova la poesia della vita nel viso di un bambina, poco prima di scivolare nel dolce nulla. E’ vero che questo racconto di Roth sembra una sorta di Kaddish, di canto funebre dedicato a se stesso, a un’esistenza passata come un’ ombra silenziosa, tra le mille luci di Parigi. Ci vuole del talento per mancare la propria vita, per narrare senza sconti la propria disfatta, svelando ciò che Sofocle non dice, sulla peregrinazione cieca dello sconfitto Edipo. Eppure, ha il passo leggero, Cecchi: il passo della danza ebbra, il passo del derviscio, del cigno che sta per cantare il suo estremo canto, insieme, di vita e di morte. Sembra quasi, nei giochi di ombre e luci del suo viso, di vedere l’antico patrizio romano, il lare familiare, che ci guarda, attraverso i secoli, con la compassione che solo un povero bevitore può avere nei confronti del mondo. Ha il viso di un Leonard Cohen che canta con le parole, con i gesti -ed ingollando, uno dopo l’altro, i bicchieri ad alta gradazione alcolica- il suo Hallelujah, la sua preghiera definitiva, che rifiuta decisamente l’amen, aprendosi alla gioiosa e, insieme, dolorosa parentesi di una nuova esperienza, o di un nuovo incontro.
I soldi che ha ricevuto, e che deve restituire a Santa Teresa, paiono eccezionale metafora di un prestito metafisico, che si può sempre sperare di restituire il giorno dopo. Il protagonista è Block, il cavaliere bergmaniano che gioca la sua partita a scacchi con la morte; ma lo fa non alle fredde latitudini degli scandinavi, bensì con la testa calda, e le guance arrossate dall’alcool, di chi porta avanti la sua sfida con la stessa leggerezza evocata da Calvino, nelle sue Lezioni americane. Si può fare la pace con la vita così, con la disinvoltura di chi beve seduto al bancone di un bistrot; si possono raccontare stupendamente questi ultimi giri di valzer, girotondi esistenziali che diventano poesia, o persino teologia. Alcuni credono che l’ubriacone, infatti, sia una sorta di teologo mancato, un essere che cerca, mancandoli, l’estasi del santo, l’irrazionalità della fede, l’impossibile assoluto in una sorsata di Pernod. Roberta Rovelli, nei panni dell’iconica lettrice, e Giovanni Lucini, in quelli del barista, sono bravi a diventare una sorta di cassa di risonanza, per questa musica di fonemi. Mentre la scenografia è un angolo che si incunea, per regalarci la stretta prospettiva di un’esistenza che non si arrende al misero spazio in cui è segregata. Generoso, e meritatissimo, il capitale di applausi riservato a Cecchi, un interprete che si è guadagnato, sul campo, la categoria di vieux roi del palcoscenico.
Danilo Caravà
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