Recensione: “Io lavoro per la morte”

io lavoro per la morte
foto di Federica Di Benedetto

C’è un complesso fondante la psicoanalisi, qualsiasi sia la matrice ideologica seguita. È quello che riguarda il proprio rapporto con la madre.
Se vi fosse una cosa al mondo per cui varrebbe la pena provare invidia, forse sarebbe proprio questa: la risoluzione del conflitto o attrito della relazione genitore-figlio.

Pare vi sia un netto legame fra quanto di irrisolto c’è in ciascuno di noi e quanto costituisce oggetto di scontro con il genitore. In altre parole, pare che il secondo sia il riflesso reso azione di quello che interiormente ci lacera inconsciamente.

Che conti farci se subentra la morte? Se si resta orfani, orbati di un relazione prima che di un conflitto?

Io lavoro per la morte, scritto e diretto e interpretato da Nicola Russo, in scena al teatro Elfo Puccini dal 19 al 24 febbraio 2019, fa i conti con il ricordo di una madre nel tempo che segue la sua morte.

Una donna difficile con una passione (più che un vizio) che solo il più nevrotico fra i personaggi di Svevo potrebbe comprendere a pieno: quella per il fumo. Una madre svagata, con rimandi a quanto di importante è insito nella propria dimensione interiore ma con difficili liaison rispetto a quanto di intrinsecamente esiste e desidera un figlio che ha smesso di sentirsi orfano proprio quando lo è divenuto a tutti gli effetti (effetti della realtà condivisa e legale, s’intende).

Lo spettacolo è un riperpetuarsi di ricordi, ricostruzioni di eventi non servi di un andamento temporale legato a successione lineare. Il tutto in una scena di cellofan non trasparente, quasi a voler subito sottolineare l’impossibilità di valicare quella soglia intima di una relazione non svelata completamente tramite questa messa in scena.

Invadono il palco mobili di una casa materna dismessa che possono solo intuirsi, al più immaginarsi tramite minuziose descrizioni o l’accurata interpretazione di Sandra Toffolatti. Lo schermo, che rende idea degli esterni, riesce in un espediente di estromissione, allontana dal privato che, forse come giusto che sia, vuole rimanere tale. Vuol restare non completamente espresso e pienamente trasmesso.

Alessandra Cutillo

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