Recensione: “Il caso Braibanti”

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Nella seconda metà degli anni Sessanta, il vento della contestazione che partiva da America e Inghilterra soffiò anche in Italia: i giovani iniziarono a chiedere più libertà e diritti civili, e a mobilitarsi contro ogni forma di autorità, il capitalismo e in generale contro tutta la società borghese che, in quegli anni non troppo lontani, appariva come immobile, chiusa nel bigottismo e nei decorosi principi insegnati dalla chiesa. Le istanze che venivano avanzate dalla nuova generazione di giovani, come la parità dei sessi, un’istruzione meno nozionistica, la possibilità di vivere liberamente il corpo e le relazioni amorose – solo per citarne alcune –, erano viste come delle assurdità dalla maggior parte dell’opinione pubblica e dalle istituzioni, dei capricci adolescenziali. Molte delle libertà di cui oggi godiamo erano allora considerate delle stramberie, se non delle vere e proprie anomalie.

Il fatto, quindi, che un ragazzo di sedici anni si innamorasse del suo professore, per di più libertario e di sinistra, e che a soli diciotto anni scappasse di casa per andare a vivere con lui a Roma, era da considerarsi uno scandalo e una vera pazzia. Il testo di Massimiliano Palmese e la regia di Giuseppe Marini, sul palcoscenico del Franco Parenti, hanno dato voce al caso Braibanti, ovvero alla storia d’amore tra il giovane Giovanni Sanfratello e il professore Aldo Braibanti, l’uno finito in manicomio l’altro in carcere. Nel 1968 infatti, il coming out era un vero gesto rivoluzionario e l’omosessualità era considerata una malattia.

Alla patologia di Sanfratello ci pensò il padre: quando fuggì nella capitale con Braibanti, riuscì a denunciare il professore di plagio, e affidò il figlio alle cure di uno psichiatra, che avrebbe dovuto guarirlo dalla seduzione subita. Il testo di Palmese ricostruisce la storia attraverso le fonti storiche: le parole di Sanfratello e Braibanti, rispettivamente Mauro Conte e Fabio Bussotti, sono tratte da lettere e testimonianze vere, nonché dai documenti d’archivio che ricostruiscono in scena le fasi del processo al professore che, ritenuto colpevole, scontò nove anni di carcere. Senza necessità di inventare nulla di fronte a questa storia, sospesa tra l’assurdo e il drammatico, la ricostruzione della narrazione in chiave storica si rivela una caratteristica particolarmente interessante dello spettacolo. Arguto e stimolante risulta poi l’impianto drammaturgico pensato da Marini, soprattutto se lo si pensa di fronte a una trama di questo tipo, cioè circoscritta nelle possibilità di esecuzione.

Questo perché non solo raccontare una storia vera limita, per sua natura, la creatività, ma in particolare per l’obiettivo che Il caso Braibanti sembra proporsi: riaccendere il passato per comprendere meglio il presente, a maggior ragione di fronte alla scarsa tolleranza dimostrata oggi agli omosessuali, e alle difficoltà che si continuano a incontrare nel raggiungimento di adeguati diritti. I due personaggi in scena ricostruiscono la storia della loro relazione, e in particolare del processo a Braibanti, senza realmente dialogare tra loro. L’interlocutore è infatti lo spettatore, che in realtà non assiste a un colloquio, ma è come se si stesse facendo raccontare di persona la storia, ora dal giovane e ora dal professore. In questa modalità di narrazione, le luci si rivelano uno strumento fondamentale. Il palcoscenico infatti è completamente immerso nel buio, una luce sola illumina la figura del personaggio che racconta, così che la sua voce emerge viva, forte, presente. Dalla penombra si vede anche Mauro Verrone, che suona live il sassofono, intromettendosi nel parlato e incalzando il ritmo del racconto. La voce complessiva dello spettacolo non è lineare e monocorde, ma anzi oscilla continuamente tra una narrazione drammatica e una esasperata, tenendo sempre alta l’asticella della tensione. Sembra quasi che il racconto sgorghi da un tempo e uno spazio lontani, quasi dalle pagine di un romanzo, da un luogo dell’irrealtà.

D’altronde, oggi la storia d’amore tra Sanfratello e Braibanti, e soprattutto le sue conseguenze, appaiono come qualcosa di esagerato e incomprensibile, se non propriamente assurdo. Eppure di fronte alle battaglie dei gay di oggi, il sentimento di estraneità o si affievolisce o erompe, a seconda della prospettiva. Se infatti cinquant’anni fa si andava in carcere o si finiva per essere considerati pazzi, oggi le cose sono sì cambiate ma con parecchia fatica, e due persone dello stesso sesso che si baciano, si amano e si vogliono sposare creano non pochi problemi. Se di casi Braibanti non se ne sente più, il cammino per maggiori libertà e diritti civili iniziato negli anni Sessanta sembra essere ancora molto lungo.

Chiara Musati

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