
È possibile ricavare, dalle parole, lo stesso effetto che ha la luce dei cristalli del lampadario sul bambino: una fascinazione irresistibile, una forza di gravità in grado di sedurre, nel senso etimologico del termine “se-ducere”, condurre a sé. Lo sa Stefano Benni, l’autore del libro da cui è tratto lo spettacolo; lo sa Emilio Russo, il regista di questo riuscitissimo lavoro teatrale, che tratta come diamanti perfetti e luminosi i grafemi dello scrittore. Sembra di intravedere, in controluce, in questo spettacolo, la trance dolce, ipnotica dello psicoterapeuta Erickson. Si ascolta quella stessa voce, che accompagna in un mondo di fanciullini pascoliani scorretti politicamente, e che si trasforma “in quelle dei tuoi genitori, dei tuoi vicini, dei tuoi amici, dei tuoi compagni di scuola e dei giochi, dei tuoi maestri”.
Si ingenera, dalla parte della platea, un lento e piacevolissimo stato alterato di coscienza; si cade nella tana del Bianconiglio per atterrare nel bar sotto il mare sul palcoscenico, pieno di junghiano inconscio collettivo calato alle latitudini tosco-emiliane. Ci si conta e si riconta, ci si racconta sul palcoscenico, e, come a frattali, da storie se ne generano altre, in una continua e proteiforme cosmogonia; ci si sente come dovevano sentirsi gli antichi quando ascoltavano, alla luce di un fuoco, le storie degli aedi, dei cantori. E prendono alla lettera, gli interpreti, l’incipit dell’Iliade “cantami, o diva”, e cantano, cantano quando le parole, per dirsi, e per far esplodere tutto il loro potenziale, non possono raccontarsi solo in forma di prosa, ma devono darsi in un canto.
Questo Sprechgesang, questo canto parlato, ha tutti i profumi di reminiscenze brechtiane, di strane storie che, fatalmente, scivolano nello straniamento. Si sente, nel patrimonio genetico di questa pièce, anche l’eredità cromosomica del teatro canzone di Gaber, di quella voglia di far ballare il racconto, di metterlo in musica, per farlo impattare in modo definitivo sulla platea. Uno spettatore, estratto a sorte, testimonia, dall’interno della scena, l’ascolto, come un uditore privilegiato; è un necessario ascoltatore, in grado non solo di regalare un valore aggiunto alla scena – un’interlocuzione che faccia detonare la gommosa e coriacea quarta parete – , ma anche di costituire la necessaria prova di verità e di urgenza del racconto, che trova il suo oggetto nell’atto stesso del suo narrare. Le storie selezionate sono come una scenografia perpetuamente cangiante: assecondano i colori del fondale, sono gli abiti sgargianti dei fregoliani interpreti in grado di calarsi, ogni volta, fino al dove-non-si-tocca di ogni singolo racconto. Per Achille ed Ettore la sfida, dalle lance, passa agli insulti memorabili, alla fiatella impossibile, fino alla gargantuesca sfida di vino e salsicce. E la si segue, come si seguirebbe lo scontro dei due eroi omerici sotto le Porte Scee. Si trattiene il fiato, fino a liberarlo in una sonora e catartica risata. O la storia d’amore tra Pronto soccorso e Beauty Case, che reinventa l’archetipo della sempiterna “liaison” sentimentale, dandole la speziatura di una sottile follia, di una fantasia che profuma delle cose buone di una volta. Ecco: questo omaggio alla scrittura, che solo il teatro poteva creare, restituisce tutto il gusto della parola, la sua dimensione gastronomica, il suo essere cibo fumante sulla magra tavola dei poveri cristi scarpettiani di “Miseria e nobiltà”. Si spalancano, dallo stupore, gli occhi, e si sorride; e si vorrebbero racconti ulteriori, come si faceva, da piccoli, con la nonna o con il vecchio zio che avevano sempre una bella storia in tasca, da scartocciare come una caramella Rossana.
“Il pornosabato dello Splendor” è uno spaccato di vita in cui, con abilità da giocoliere, Fellini, Tornatore (anticipato, peraltro) e Guareschi sono tenuti in equilibrio, lanciati, ripresi e rilanciati. Mentre la storia dei quattro veli acquista una valenza sciamanica: ritmata da diversi strumenti musicali, adempie meravigliosamente ad indurre uno stato di trance da cui si esce sanati, come da un bagno termale in una spa. I tre interpreti – Roberto Andrioli, Lorenzo degli Innocenti, Fabrizio Checcacci – hanno la capacità di palleggiarsi ogni storia come globetrotters dei fonemi, come carioca della laringe, trasformando la fonazione in un’incredibile partita-spettacolo. Hanno il grande merito di mettersi a disposizione in corpo e voce, di darsi e di cadere per primi, felici vittime della corroborante trance ipnotica della scrittura benniana. Il chitarrista, Cosimo Zannelli, riesce a far planare note sul palcoscenico, come una neve gentile su di un paesaggio, o un velo da sposa in musica, per accompagnare il gioioso matrimonio tra il palco e la platea.
Danilo Caravà
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