
Ci sono intuizioni teatrali che si impongono alla platea con la forza del cogito cartesiano, illuminazioni improvvise, quelle che in psicologia vengono definite l’insight, il momento in cui i tasselli sembrano andare a posto da soli, incastrarsi perfettamente per formare un disegno, un tutto che gestaltianamente è molto di più della somma delle parti, ed è esattamente quello che successo in questo lavoro teatrale della Shammah. Ha restituito Testori, l’essenza della sua scrittura teatrale, coniugando i due elementi che caratterizzano questo autore, la carne e la parola, che mescolati insieme formano quel quid esistenziale, quell’equazione umana, scritta e riscritta nel corpo, uno spirito trovato nel cuore ventrale dell’umano, come in una tela di Caravaggio.
I sei Personaggi di Pirandello non piombano più da qualche sperduto orizzonte di idealità creativa, ma sono presi dal quarto stato di Volpedo, sono vivi e vitali, ed il loro metateatro restituisce l’anatomia autentica del muscolo cardiaco scenico. La prova, già evocata dal titolo, ritorna alla sua fonte etimologica, all’essere proba, onesta, cosa buona e giusta, e Testori, ed insieme la regista, la mostrano alla platea, con curiosità famelica, non l’incanto dello sguardo del bimbo che vede la mamma tirare la pasta per preparare i ravioli della domenica.
E’ maledettamente vero, autentico questo teatro che racconta la sua disperata voglia di farsi racconto, di farsi cristologicamente carne per una nuova ed eterna alleanza col pubblico, è la mano callosa, sporca di unto, scheggiata dal metallo lavorato al tornio, di un pendolare delle Nord che ha più vita sulle spalle di quella che dovrebbe avere. Ed è proprio la voce registrata di Franco Parenti a soffiare la vita scenica a questa piece, il suo sorriso fonetico sembra spalancare le sue braccia per contenere interpreti e platea nella sua eterna urgenza, insieme di dire e di essere. La scena è lì, immediatamente e non mediatamente teatro, racconta l’essenza, lo scheletro stesso su cui si regge il lavoro teatrale, ritorna alle assi di legno del carro di Tespi, bastano delle sedie e qualche telo, perché il rito si compia, perché un Cotrone residente in qualche Comune tra Novate e Pescarenico richiami con la sua magia tutti i giochi teatrali. E come è leggera, come è lieve questa messa in scena, fa tesoro delle lezioni americane di Calvino, e non rinuncia al sorriso, anzi lo rilancia, sa quanto la comicità rustica, autentica e vivace, come lo sono le pennellate di Ligabue, avvicini la platea, renda ancora più stretto il patto narrativo. Questa vis comica, ed insieme tragica, toglie gli scomodi coturni per barattarli con un paio di scarpe col tacco, magari per far ballare uno scatenato rock all’attrice che interpreta la monaca, con il suo “Giampegidio”.
Tutti gli interpreti con un estrema schiettezza, facilitati dalle esperte mani maieutiche della drammaturgia testoriana, giungono con naturalità ad interpretare i loro personaggi, non c’è un confine fonetico, non trovano Renzo, Lucia, Agnese, fra Cristoforo, Don Rodrigo, bronzando le loro laringi, ma lo pescano nel ventre, nel lago della loro emotività, le loro battute sono chiare, fresche, e dolci acque, le scovano così, come nella canzone di De Gregori, tra il lavandino ed un secchio, tra un manifesto e lo specchio. Il testo manzoniano non è più un tomo polveroso, con personaggi banalizzati da una critica, un’esegesi che racconta pigramente se stessa, ma sono fatti della stessa sostanza degli umani, sono la realtà che potremmo incontrare appena fuori dal teatro, è l’umanità a guardarsi e soprattutto a guardare la platea, ed in quello scambio di sguardi ci si riconosce vicendevolmente, l’essere umano trova il suo esserci, non in astratte elucubrazioni, ma nell’urgenza della sua carne, e della sua parola. Luca Lazzareschi, nella parte del maestro ed in quella di Don Abbondio, di fra Cristoforo, mostra la fascinazione della parola, la sua necessaria ostensione, usa con destrezza la bacchetta magica verbale, stimola, punzecchia quanto il tafano evocato dal Socrate di Platone. E ancora di più mostra il risultato della sua generosità scenica, mostra tutta la fatica del vieux roi del teatro francese, e scava nel profondo dell’abisso nietzscheiano la vocalità dell’Innominato, incatramata, ma terribilmente vera e vicina, quanto la propria giugulare.
Laura Marinoni non interpreta, è la Monaca, la donna che porta la sua dignità invitta al monatto nella scena della peste, è la femmina, la madre, la peccatrice che ha braccia ed insieme un ventre, che ha tante ragioni del cuore che la ragione non conosce, è un fiore del male che profuma molto di più della semplice rosa, e il guardarlo, l’ascoltarlo è un’ipoteca di contatto, la promessa di poter appoggiare la testa su quel ventre troppo umano per poter stare semplicemente nella pagina di un romanzo. Proviene dagli inferi che stanno appena sotto le tavole del palcoscenico, dall’inconscio teatrale dei desideri e delle pulsioni, è la danza di Dioniso il suo recitare, in grado di narrare insieme le lacrime ed il riso, e di restituire la vita a se stessa, al suo essere in eterno bilico tra Talia e Melpomene, tra la comicità e la tragedia. Se si dovesse racchiudere in una frase il sugo manzoniano di questa piece, e mai metafora fu più necessaria vista la natura del lavoro teatrale, si potrebbe prendere a prestito le parole di lode che Cicerone dedicò alla scrittura di Cesare, “Nudi sunt, recti et venusti”, ammirevoli davvero sono schietti e semplici, ecco la definizione che in un solo colpo d’occhio racchiude la regia ed insieme gli interpreti.
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