
La verità, vi prego, sulla guerra
Ad accogliere lo spettatore c’è una visione essenziale, una rarefatta, quasi metafisica scenografia, alcune sedie, scheletro artificiale di una presenza/assenza, oggetto archetipico, sfottò ioneschiano ad una passività inerte, che va “schiaffeggiata” con le parole per essere ravvivata.
Nell’hotel Palestine a Baghdad si cerca la verità con ostinazione, mentre giornalisti e funzionari dell’amministrazione americana sbranano con fonemi acuminati le ragioni della guerra in Iraq. Il regista, Salvino Raco, si è trovato di fronte ad un’impresa improba, quasi impossibile, ossia quella di dare linfa vitale ad un testo che abiura l’ultimo ridotto di resistenza drammaturgico della Poetica di Aristotele, la categoria stessa di azione. Riesce a vincere la sfida trovando questa risorsa dinamica nelle parole stesse, nella loro matericità, nel loro essere in perenne movimento.
Ad una bella ensemble di attrici ed attori giovani, facendo detonare il loro entusiasmo, dona la forza giusta per incarnare personaggi che guardano avanti con rabbia e determinazione, che hanno la stessa lucidità, efficacia, lo stesso ringhio dei personaggi pinteriani. Ecco che la quarta parete è fatalmente stracciata, e gli interpreti sentono l’imperativo della presenza in platea, la conferenza stampa, metateatralmente, non può che abbracciare il pubblico, e la funzione etica di questo teatro diventa quella di risvegliare lo spettatore dal torpore papaveraceo dei media. Solo, per paradosso, il cri de guerre del giornalista può provare a vincere la guerra, di cui fortissimamente vuole svelare i retroscena.
L’intuizione ottima del drammaturgo tedesco del testo, Falk Richter, è quella di dare una sulfurea forza dialettica agli antagonisti, di dare al nemico l’arma più pericolosa, quella della retorica, della propaganda, costringendo l’altra parte ad abbandonare i luoghi comuni del più scontato antiamericanismo. I “cattivi” sanno parlare ed il loro male non è affatto banale, sono infatti in grado di filosofeggiare, ed usano la socratica reductio ad absurdum, truccando le carte per la logica, per contrastare l’avversario. Se la vita non vive, o boccheggia nella pigra indifferenza di un pubblico mediatico che fatica a schierarsi, la parola, al contrario, vive efficacemente in questo lavoro teatrale, e trova il suo picco nell’urlo andromacheo delle vittime infantili del conflitto.
I pugni verbali di Marinetti possono essere un’arma usata anche dal pacifismo, ed i tacchi di un’attrice possono diventare, in un attimo particolarmente ispirato, i coturni di una donna che, se muove al pianto gli dei indifferenti, non può che provocare l’imbarazzato e l’attento silenzio degli spettatori, i quali ricambiano lo sforzo scenico con un generoso capitale di applausi.
Danilo Caravà
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