
È ormai noto che l’Iran, e in particolare la sua capitale, Teheran, sta affrontando un periodo di rivolte politiche contro la dittatura di un regime islamico che impone fin troppe restrizioni. Siamo abituati a vederne le conseguenze al telegiornale, ma spesso ignoriamo come e quanto questa serie di rigide regole e divieti gravi sulle vite dei giovani, che si vedono vietate attività che per i ragazzi occidentali rappresentano la quotidianità. Fra queste c’è la possibilità di avere della privacy nella propria vita sentimentale. La famiglia, le istituzioni, la gente per strada non si astengono da giudizi e questo porta ragazzi e ragazze ad avere difficoltà nell’approcciarsi al sesso opposto. La possibilità di essere additati come delle persone poco serie è dietro l’angolo, il senso di privazione della libertà è forte.
Da questa base sociale ha preso spunto il regista Reza Koohestani, che con Hearing ha voluto mettere in scena il senso di oppressione che le ragazze di un collegio femminile iraniano provano rispetto alle severe regole imposte dai docenti. In particolare, una ragazza viene interrogata fino allo sfinimento dalla responsabile del dormitorio del collegio perché accusata da una sua compagna di aver introdotto un ragazzo nella sua stanza la notte di Capodanno.
Questa violazione delle regole è sufficiente per mandare in crisi l’intero sistema scolastico, tanto che la studentessa è costretta a presentarsi in tribunale e viene successivamente espulsa dall’istituto.
La tematica di partenza di Koohestani, seppur molto interessante, non ha trovato riscontro in una altrettanto accattivante messa in scena. Il primo ostacolo alla comprensione della rappresentazione è stato senz’altro quello linguistico: per l’intero spettacolo è stata adottata la lingua farsi, lingua madre del regista e lingua ufficiale dell’Iran, ma questa volontà registica di mantenere l’idioma originale è stata penalizzata dalla disposizione dei sottotitoli nel megaschermo sul fondo del palco. Questi erano piuttosto piccoli e in una posizione forse non ottimale alla lettura, che non è stata semplice. Ma, se pure si fosse conosciuta la lingua, la fruizione non si sarebbe semplificata, dato che le attrici hanno mantenuto un tono di voce piuttosto basso durante l’esibizione.
Che il regista abbia una formazione cinematografica è stato evidente, soprattutto dalla recitazione delle attrici, forse eccessivamente statica, più adatta allo schermo che al palco, la cui vastità non è stata efficacemente sfruttata. Un altro sintomo del passato lavoro di Koohestani nel mondo del cinema è stato l’utilizzo di una Go-Pro nella seconda parte dello spettacolo. Per rappresentare i punti di vista dei diversi personaggi, le attrici si sono passate fra loro una piccola telecamera che si posizionavano volta per volta sulla testa. Quello che filmavano le ragazze veniva trasmesso sul megaschermo con un esito non sempre felice, dato che i movimenti di camera erano così tanti da recare quasi fastidio.
Il senso di oppressione c’è stato, ma non per un coinvolgimento emotivo, bensì per la stanchezza dovuta ad una eccessiva ripetizione delle medesime battute, che probabilmente era stata pensata per dare un senso di ciclicità degli eventi, di stordimento e di atemporalità della narrazione. Nonostante ciò, uno dei pregi della drammaturgia è senz’altro la forma utilizzata, cioè quella dell’interrogatorio: le ragazze vengono a lungo torchiate da una voce imperante, proveniente da dietro le quinte. È la voce della direttrice del dormitorio, a cui non si attribuisce mai un volto. Questo innalza il tutto a metafora, facendo sentire il pubblico in prima persona carnefice e responsabile di quella interminabile inquisizione. La sensazione è di non avere scampo. Tutti giudichiamo e tutti siamo giudicati.
Jasmine Turani
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