
La compagnia Abbondanza/Bertoni conduce i suoi personaggi “con la loro orbatura dell’animo bagolanti e vagolanti verso potenziali nuove visioni, verso un nuovo impero dei sensi fatto d’olfatto, atto al tatto; udito e ingoiato infine dalla loro ingordigia di fragili e umanissime creature” all’Ex Pini, nel Teatro La Cucina. In tale luogo, i propositi e i significati dello spettacolo si amplificano e si fondono con la storia di un posto, testimone di dolore e miseria, di cui gli irriverenti e instabili “orbi” divengono portatori, sacerdoti dell’umana fragilità.
Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi;
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch’altro sarà, dicea, che ’l cor mi tocchi? (Giacomo Leopardi, Elegia I)
Orbi come ciechi, persi, erranti e abbandonati, che si aggirano per la scena reggendosi i cuori l’un l’altro, in una sorta di giga reiterante ma mai ridondante. “La parabola dei ciechi” di Peter Bruegel (che costituisce l’immagine di partenza del lavoro della compagnia) inizia timidamente, serrandosi reciprocamente le mani, senza lasciarsi o riacchiappandosi appena dopo aver rischiato la solitudine spaziale, la scoperta di un equilibrio precario, che resiste solo se sorretti. “Orbi di pace e di onore” abitano la scena senza vederla, ma la vista è debole e soggetta agli stenti del tempo che scorre e del corpo che invecchia, ma lo sguardo è vivo, resiste anche negli occhi di chi esiste nell’oscurità. Lo sguardo è necessario e richiede coraggio, l’audacia di guardare oltre il vedere, fuori dagli occhi, se stessi e il mondo. Orbi come privati di tale coraggio da una società che ci vuole sempre più ciechi, da una Storia che ci ha resi sempre più distratti, omertosi, indifferenti. Educati ad abbassare gli occhi, alla cecità intesa come inazione, obbedienza, approvazione, gli Orbi di Abbondanza/Bertone, ancora vivi nello sguardo, tentano l’equilibrio in slanci di verità, sensualità, tenerezza, violenza, impudicizia, sfrontatezza, narcisismo. Il torpore, insieme alla sicurezza, generato dal tenersi continuamente per mano, viene spezzato talvolta nella costruzione folle e libera di quadri diversi, movimenti svincolati dalla reiterazione, voce stridula, urlo soffocato, parola cristallizzata. Allora la giga si rompe, le anime straripano e strisciano, saltano, si muovono nevroticamente a ricreare il mondo che lo sguardo ha conservato e che li ha resi (forse consenzientemente) ciechi.
Tra i momenti in cui le mani saldamente si tengono, tra l’inizio e la fine si insinua il grottesco, la parodia, la provocazione, la mestizia: un’esile ed estenuata danzatrice che lotta con il tempo che le ha imbrigliato il corpo, atrofizzando gli arti con cui, una volta, volava e il suo alter ego giovane e leggiadro che provoca in lei il dolore delle cose che non sono neanche più ricordi, ma pensieri che si ostinano, oscuramente, di ricordare e cadono, come corpi morti; e poi, ancora, delle improbabili Carrà che improvvisano uno stacchetto televisivo, denunciando la vacuità di una promessa di partecipazione che non è mai puro e disinteressato coinvolgimento, ma una dissimulata richiesta di tenere gli occhi aperti e lo sguardo spento, altrove. “Non pensare, accendi il televisore, ridi, cambia canale, piangi, il telegiornale, venti deboli e mare poco mosso, questo programma è stato offerto da…”; la conformità rassicurante che si impone con la violenza e la depersonalizzazione, scorticando chi tenta di riacquisire i propri panni, di rientrare nella propria pelle.
Sono tanti gli spunti che la compagnia mette in scena e altrettanti quelli che accenna, che ci lascia completare, costruire, per riflettere, per guardare oltre il vedere. Uno spettacolo ricco che si priva della vista ma riesce a catturare completamente la nostra visione, che scorre incessantemente, senza stacchi, pause. Capacità che viene anche da un lavoro drammaturgico abilissimo di sonorità e luci (rispettivamente a cura di Tommaso Monza e Andrea Gentili) che ci accompagnano costantemente, inquietandoci e accarezzandoci a tratti.
Siamo profondamente coinvolti e chiamati in causa, perché ciò che osserviamo ci riguarda, siamo noi, è la nostra vergogna, sono le nostre paure, è nostro il sesso, lo squallore, la presunzione, nostri i costumi, la pelle nera, lo scotch sugli occhi, i detriti e i simulacri, i clichè e le colpe. Siamo tutti quegli Orbi che cadono e si rialzano, che vagano a tentoni e si liberano dalla giga e poi vi ritornano. Non esistiamo, senza lo sguardo degli altri. Non possiamo vederci, non possiamo essere senza occhi che, reciprocamente, si riconoscano. Allora teniamoci per mano. Siamo complici. Siamo fratelli e il tatto è la nostra nuova patria. Le dita sono le infrastrutture e le mani i mezzi di trasporto. Mancanti ma senza mancarci mai, danziamo tra “la vetta e l’abisso” della vera umanità, alla ricerca di un dolore più tenue e un palpebrìo nuovo.
Giuseppe Pipino
Leave a Reply