
C’è un principio, adottato poi dalla fisica quantistica, che ci dice che non è possibile misurare con esattezza e contemporaneamente le proprietà che definiscono lo stato di una particela elementare. È il principio di indeterminazione. Concettualmente, tale principio reclama l’impossibilità dell’osservatore di essere considerato mero spettatore, dal momento che il suo intervento (anche solo visivo) nel misurare le cose viste , produce effetti incalcolabili e, dunque, un’indeterminazione ineludibile.
Se questo vale per le piccole cose, figurarsi per l’inestimabile del grande. C’era qualcuno dal nome patriottico che sosteneva che soltanto quando si è conosciuto la superficie delle cose ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto, ma la superficie delle cose è inesauribile. Sfugge alla nostra capacità di attenzione, anche la più elevata. Si articola nel quotidiano, forma dei frame apparentemente svalutabili ma profondamente sconcertanti se colpiti da rifrazione luminosa in grado di sovvertire qualsivoglia convinzione classica di determinazione.
Frame, ultimo spettacolo del regista premio UBU Alessandro Serra, prodotto da Koreja insieme a Compagnia Teatropersona, andato in scena al Teatro Fontana di Milano e ispirato all’immaginario artistico di Hopper, sposa con coerenza disarmante l’indeterminazione di Heisenberg ( con uno sforzo allegorico, s’indenda).
Artista non vincolabile ad alcuna corrente pittorica, non determinabile, Hopper ritrae la liturgia del quotidiano che dall’infinitamente grande della superficie dell’ambientazione stradale va all’infinitamente piccolo di una stanza. Come un film lento fatto di diapositive che muovono a ritmi perduti, Frame raccoglie un universo prepotente per la profondità delle sensazioni veicolate delle scene. Cinque attori (FRANCESCO CORTESE, RICCARDO LANZARONE, MARIA ROSARIA PONZETTA, EMANUELA PISICCHIO, GIUSEPPE SEMERARO) comunicano con precisione e sapienza tramite il linguaggio silenzioso che tanto dice scene e retroscene di una vita tormentata. La scenografia ricorda la casa-scatolone che si costruiva da bambini, cui lungo una parete si ricavava una finestra per spiare il mondo al di fuori mentre dentro scorreva un altro universo infinito.
Tutto ciò che accade è sottomesso alla dittatura della luce o dell’oscurità, che è lo stesso. Squarci di luce e buio rendono azione al tormento dell’essere, baluginii aerei movimentano dolcemente un jocker-Pierrot mentre si è in Marciapiedi a New York, in ufficio di notte, al Sole di mattina, in un Interno d’estate.
Le cronie scandiscono ritmi soffusi e mai fastidiosi, il tempo e il suono non violentano inutilmente ma scuotono con la sapienza di un vecchio arcano. Tutto è quotidiano, nulla è straordinario eppure tanto eccezionale.
Ogni momento è cambiamento, andamento incessante ma non spasmodico, chiara rivendicazione della vita in quanto tale. E qui la chiave vincente e preziosa della cifra di Alessandro Serra.
Ci ha abituato alla sua sapienza alchemica in grado di dar traccia di quell’ipnosi fatta di estasi, ammirazione e sgomento che amiamo chiamare esistenza, vita, o come più gradite.
Alessandra Cutillo
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