Juri Ferrini riporta in scena “Pluto”, del commediografo greco Aristofane, al teatro Carcano fino al 25 Marzo. Testo irriverente in cui già 2400 anni fa si cercava di mettere l’accento su come l’iniqua distribuzione delle ricchezze tra gli uomini fosse, esattamente come oggi, il principale movente delle azioni umane.
Nella convinzione che dalla cecità del dio della ricchezza Pluto derivi tale inuguaglianza di distribuzione, il protagonista Cremilo (Juri Ferrini) cercherà di ridargli la vista per risolvere il problema. La povertà in persona cercherà di esortarlo a fermarsi, argomentando con lui di come lei stessa e lo stato di necessità che da lei deriva spingano gli uomini ad impegnarsi e a lavorare per la loro crescita intellettuale, mentre al contrario una ricchezza non guadagnata con il lavoro altro non fa che renderli pigri, molli e viziati.
Significativa è di certo la scelta del testo, ancora oggi di impressionante attualità: è eccezionale l’ironia con cui Aristofane dipinge un contesto in cui sempre di più chi possiede beni materiali in grande quantità e non per proprio merito, si ritrovi a dettare legge su chi invece è costretto a faticare per ottenere ciò di cui vivere. Assieme ai semidei Pluto e Povertà, Cremilo discute della necessità di ribaltare la situazione, ovvero di farla pagare ad una parte di società che secondo lui si è arricchita per merito della sola disonestà, lasciando la parte che resta in una miseria tale, da non ptersi nemmeno permettere di fare, appunto, delle offerte agli dei. Ma povertà e miseria sono la stessa cosa?
La via scelta dalla compagnia per l’allestimento è certamente molto semplice, verrebbe da dire che si sono compiute scelte estetiche piuttosto tradizionalistiche: in scena si vede per tutto il tempo il salotto del protagonista Cremilo, luogo principale di azione della commedia; anche i costumi e le musiche scelte non lasciano grande spazio all’immaginazione, evocando infatti una sorta di contesto mediorientale che non rappresenta, chissà se anche per scelta, grande originalità.
Va anche detto che non ci sarebbe bisogno di attualizzazioni forzate se solo si credesse nella potenza del testo originale. In una scelta registica dettata da coerenza, infatti, tali scelte scenotecniche, risulterebbero calzanti se accompagnate alle già graffianti parole originali del commediografo greco. Come a dire che è già tutto nel testo. Il dato che sorprende è, invece, il parziale tentativo di riscrittura che ne viene fatto. Vengono lasciati quasi intatti i dialoghi della cosiddetta retorica platoniana, su cui si reggono le argomentazioni morali del testo. Al contrario, le situazioni brillanti vengono infarcite di riferimenti alla criminalità, alla politica attuale e vengono inoltre colorite di espressioni volgari che di certo non scandalizzano, ma che nemmeno trovano una vera utilità salvo quella di una presa più facile sul pubblico in sala.
Si sarebbe certo potuto andare più a fondo nell’autore per raccontare i grotteschi scandali che caratterizzano una certa parte della società attraverso l’intera storia dell’uomo. Certo è che, se non si sapesse chi fosse, la prima cosa che verrebbe da dire al termine della rappresentazione sarebbe: “Bravo davvero questo Aristofane, chissà perché si fa chiamare così.”
Dario Del Vecchio
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