Recensione: “Camillo Olivetti, alle radici di un sogno”

camillo

Laura Curino ha il dono di portarsi con sé le storie, di farlo in punta di piedi, con garbo, è una donna piemontese che ti racconta il mondo come te lo narrerebbe un aedo, il suo dire ha quel carisma del mythos, della parola, che porta ancora con sé in dote un’aurea magica, quella di quando il bambino di Handke era ancora bambino, stagione nella quale i fonemi non sono ancora inamidati e stirati dal Logos, quella che che fa sgranare insieme gli occhi ed il cuore. E’ la madre archetipica di Jung, un genitore che accarezza con le parole, che sorride con la sua vocalità. In platea sembra di sentire il battere sui tasti di una lettera 22, quel tac tac che ha l’andamento di una pioggia meccanica, di un temporale estivo il cui prologo è musicato da singoli goccioloni, da un ritmo sincopato, che si scioglie in periodi torrenziali, nelle pagine sceniche del racconto della famiglia Olivetti, attraverso la quale capitale e lavoro trovano una sintesi hegeliana, in grado di trasferire la città ideale (e qui industriale) di Campanella alle latitudini piemontesi di Ivrea.

E arrampicandosi in alto, lungo l’albero genealogico l’attrice scova una donna, Elvira Sacerdoti, una mamma ebrea, rimasta vedova giovane, una di quelle che dio ha previsto perché non poteva essere dappertutto, in grado di dare un’impronta matriarcale,una coté di socialismo naturale, immediato, trovato nella sensibilità, nell’istinto materno femminile. La protagonista diventa una piccola legione di personaggi che vanno a comporre un album di famiglia, e ancor di più il dagherrotipo di una società che dall’ottocento arriva di gran carriera nel ventesimo secolo illuminata dalla luce elettrica.

Tira fuori dalla laringe l’interprete un repertorio di voci, arricchite da quella parlata un po’ aristocratica, un po’ solenne che appartiene a certi accenti piemontesi, arricchiti di certe vocali che sembrano uscite dal bending, dal “glissando” di una chitarra blues. Scova certe nasalità, certi toni, costipati, che fanno vibrare le ance del naso, e riscoprono quella parlata unica e irripetibile di Tina Pica. E’ davvero un Proteo la Curino, in grado di piegare la voce ed insieme lo spazio che la circonda a seconda delle necessità. In principio c’è veramente il verbo in questo spettacolo e non solo nell’incipit, ma in tutta la sua vita scenica dimostra la sua capacità demiurgica, di plasmare da solo il mondo, di smuovere, come un potente vento, i rami dell’attenzione. La regia di Vacis dona un valore aggiunto a questo teatro di narrazione, facendo shakespearianamente di un palcoscenico un regno, popolando il racconto di facce numerose quanto quelle del quadro “L’entrata di Cristo a Bruxelles”. E’ piacevole verificare che nella storia di Camillo Olivetti, il padre di Adriano, c’è la genesi di un sogno e la sua realizzazione, in cui famiglia, lavoro, creatività vivono una perfetta sovrapposizione, sincronicità, in cui trova compimento l’utopia di un mondo industriale che non cerca di sbranare famelicamente il pezzo di carne del valore aggiunto, bensì vuole regalare un paesaggio alberato ai suoi lavoratori, momenti culturali, una coperta ideologica socialista che riesca a dare tepore e conforto contemporaneamente all’imprenditore ed agli operai. Forse nel bollito misto piemontese, ironicamente evocato a più riprese nel corso della piece, che accompagna i rituali pranzi familiari, sta davvero il segreto di un carattere piemontese fatto insieme di understatement e di sapore intenso, di lavoro fatto con pazienza e applicazione, come ci si dedica alla cottura delle carni che compongono la ricetta.

E’ fatto con una vocina sottile Camillo, un contrappunto giusto per una personalità forte che volle, sempre volle, fortissimamente volle. L’interprete riesce a diventare essa stessa il cinematico di scrittura di una macchina da scrivere, ovvero il congegno, costituito da una serie di leve e tiranti che collegano ciascun tasto ad un martelletto, è in grado di adempiere alla sua funzione mercuriale di portare il messaggio del racconto sul foglio bianco del palcoscenico, di vergarlo riga dopo riga di fronte agli occhi del pubblico in sala, di trasformare questo ticchettio meccanico in una musica. D’altra parte anche nel pianoforte, negli strumenti musicali a percussione, il principio è simile, e dalla tastiera la nota si fa cosa viva attraverso un martelletto che percuote una corda. Basta un ditino alsaziano che si muove nell’aria per contare le teste della prole di Camillo, per vedere la foto, il ritratto della famiglia Olivetti che si srotola pian piano nel racconto. Bastano un paio di mani che descrivono curve armoniose nello spazio, piccoli gesti tersicorei che regalano la grazia di Nijinski ad una recitazione che si apre in un’ideale abbraccio, in grado di trovare la dimensione, invero difficilissima, della naturalità, di quella quotidianità, che a sempre qualcosa di ironico, vista dal basso verso l’alto, di sghembo, con gli occhi del fanciullo pascoliano, o con quelli comprensivi della madre che cerca pazientemente di riunire la trama e l’ordito del racconto famigliare. Ed è bello il gioco finale, meravigliosamente teatrale, dell’attrice che, durante l’applauso, prende per mano idealmente tutta la famiglia Olivetti che ha raccontato perché divida con lei il generoso capitale di applausi.

Danilo Caravà

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