Ceronetti era presente sulla sua scena come un Kantor in cerca del cielo stellato di Kant; aveva un viso simile a quello di un Artaud invecchiato e segnato dall’esperienza manicomiale, che decide di farla finita anche con il giudizio degli uomini, dopo averla fatta finita con il giudizio di dio. E aveva trovato il corpo liberato dalla presenza organica nei suoi meravigliosi pupazzi. Tutto questo e molto di più esprimono sul palcoscenico l’attrice Corinna Agustoni ed Elena Callegari. Due presenze in scena che sono tutto un mondo da scoprire, potrebbero pronunciare il loro personalissimo “oplà siamo vive”, potrebbero, da un momento all’altro, cantare un tango di Hollaender, o mettersi brechtianamente a cantare un brano di Kurt Weill. Riempiono la loro scena con un seduttivo spettacolo d’arte varia, che è in piena affinità elettiva con il teatro ceronettiano. Sono lontane parecchi anni luce da una certa idea museale e taylorista, da catena di montaggio, del fare teatro. Liberano la loro presenza scenica, ed è già molto, è già tutto. Riportano sul palcoscenico tutta la forza anarchica, ribelle, di due attrici che credono nella dinamite, come il personaggio del film di Leone.
Giocano come nemmeno Nietzsche sapeva giocare con le parole, esprimono con naturalità quello stesso bel esprit che risvegliava da l torpore la pigra e annoiata corte francese del settecento. Ma soprattutto sono dannatamente vere, sono se stesse, e possono permettersi di esserlo pienamente e a buon diritto. Surrealiste per vocazione, cabarettiste ispirate, tirano giù, a colpi di fonemi, la quarta parete; tastano il polso alla platea, la auscultano, e, nel caso, praticano ad essa il massaggio cardiaco. Nel fare tutto questo portano a Ceronetti l’omaggio migliore, e offrono agli spettatori il fiore, che non è quello del male baudelariano, ma quello parlante di un Fedro, il quale ha molta più fiducia nella saggezza degli animali e della natura tutta, piuttosto che negli uomini. Questo spettacolo dimostra che si può fare teatro con poco, a patto che sia l’energia stessa degli interpreti a riempire la scena; si può fare teatro decisamente e convintamente anti-aristotelico, restituendo alla platea tutta la sua coscienza critica, evitando di condurla , al pari di un pifferaio di Hamelin, verso il tristo burrone della catarsi.
Elena Callegari gioca con la sua torreggiante verticalità, è ingualdrappata come un mago un po’ decadente; potrebbe insegnare in una scuola di magia per tutti quelli che non possono permettersi quella di Harry Potter, e chiama a raccolta il suo pubblico con un fantastico “a me gli occhi please”. Cotronessa che riesce a farsi capire dai giganti pirandelliani, gioca con i suoi fonemi come un esperto giocoliere, li lancia, li tira in aria, li fa scorrere da una mano all’altra, e non li fa cadere mai, nemmeno per un istante. E’ sempre lì, di fronte al suo pubblico, implacabile come una squadra calcistica che fa pressing, come un pugile che ti stordisce con i suoi uno-due, e ti tiene in piedi con i suoi pugni cabarettistici. Improvvisa davvero perché improvvisa se stessa, con la comicità di chi sa che ci sono più cose in una risata che tutta la nostra filosofia. E Corinna Agustoni è una partner perfetta, il suo clown bianco, la sua Nemesi. Costruisce con la sua compagna di scena un calcio carioca, acrobatico, degno del miglior Brasile. Prende la palla della nostra attenzione, e la fa girare su un dito con una naturalezza che non manca di stupire. E’ un folletto, un Ariel che ha deciso di concedersi una postfazione dello spettacolo, dopo che Prospero ha rotto definitivamente la sua bacchetta. Ha, nello sguardo, la saggezza del servus callidus del teatro plautino, della Colombina che la sa lunga, di quella serva che sa certi segreti inconfessabili di Dioniso. Insieme formano una coppia ideale, perfettamente complementare, in grado di restituire quell’occhio di bue, che le incornicia nella assolvenza iniziale e nella dissolvenza finale, nella loro stessa recitazione. Ma, dopotutto, è limitante definirla recitazione, bisognerebbe coniare un nuovo termine, una nuova definizione per indicare il loro stare in scena. Sono delle bravissime funambole in grado di camminare sul filo sottilissimo, in bilico tra l’essere se stesse e l’essere un qualunque personaggio, un esercizio che riesce dopo che le interpreti hanno camminato lievi, dietro le nuvole di innumerevoli testi teatrali. Giocano con la loro stessa passione, e, nel farlo, diventano più giovani di quell’essere che ancora non è stato concepito.
Che freschezza si respira nelle latitudini della platea, nell’assistere a questo sogno di una notte di mezza estate, così semplice, così essenziale, e insieme così necessario. Due donne cantano l’ira cabarettistica di Ceronetti, che infiniti addusse lutti al “politicamente corretto”. Regalano agli spettatori premi e cotillons, ma soprattutto regalano con generosità se stesse, e la loro voglia, insieme meravigliosa e irriducibile, di essere ancora lì, una volta di più, sul palcoscenico, per fare la differenza, per dimostrare che il teatro ha più di 25 secoli, e non ha ancora una ruga sul viso.
Danilo Caravà
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