Jack: “Mi sono squarciato il petto e ho lasciato che tutti ci mettessero le mani dentro, vi garantisco che la sensazione non è stata così piacevole”.
Commissario: “Che il mondo sia uno schifo, non fa certo di te un essere migliore”.
Johann “Jack” Unterweger viene lapidariamente presentato su Wikipedia come “Serial killer austriaco: 1950-1994”, una definizione netta per cui non dovremmo porci ulteriori interrogativi, eppure… È questo “eppure” ad essere indagato nello spettacolo “Bed Boy Jack”, progetto di Amadio/Fornasari, coprodotto dal Teatro Filodrammatici di Milano e dal Teatro Stabile del Veneto, in scena proprio al Teatro Filodrammatici fino al 3 aprile.
Storia vera, storia recente, storia clamorosa. Brevemente: Jack Unterweger uccide una giovane donna strangolandola con il reggiseno; viene condannato; durante la detenzione scrive racconti, poesie, drammi teatrali e l’autobiografia “Purgatorio” sul proprio percorso di redenzione; alcuni intellettuali tra cui l’editore Gunter Grass e la scrittrice futuro Premio Nobel Elfriede Jelinek sono impressionati dalle sue opere e si battono per la sua scarcerazione; Jack torna a piede libero e diventa un personaggio famoso, acclamato dalla critica e richiesto in tv, nei teatri e nelle scuole. Il simbolo della catarsi dell’arte, della riabilitazione compiuta attraverso la poesia e la cultura, dell’ascesa al Paradiso sublimando l’Inferno grazie alla bellezza estetica e artistica. Un sogno divenuto realtà, il lieto fine, la vittoria della civiltà. Eppure… Una serie di omicidi sospetti, prima in Austria poi a Los Angeles, attira nuovamente su di lui le attenzioni della polizia: alcune prostitute vengono picchiate ferocemente e vengono strozzate con il reggiseno, proprio come era accaduto nel caso precedente. Jack contatta i media e cerca di difendere la propria innocenza ma le prove lo incastrano: braccato dalla polizia, viene arrestato a Miami, processato a Vienna e condannato all’ergastolo il 29 agosto 1994. Il giorno stesso della sentenza, si impicca; il nodo del cappio è analogo a quello usato per le vittime.
Non si tratta di uno spoiler, la vicenda è nota e fin dal principio sappiamo come andrà a finire. Non è un caso che la prima azione dello spettacolo sia Jack che, dopo aver sfilato tra gli spettatori sulle note del Don Giovanni di Mozart, irrompe sul palcoscenico spezzando platealmente il nastro di avvertenza usato dalla polizia sulla scena del crimine. Il pubblico viene quindi accolto nel grande teatro plasmato dalla narrazione che Jack stesso fa di sé: “il poeta della morte”, “il prigioniero poeta”, il “Bed Boy” ossia l’irresistibile ragazzo da letto & ragazzo cattivo che affascina l’intellighenzia e seduce le donne, sempre vestito di bianco con una sciarpa e un fiore di colore rosso, “crea” la propria storia incantando, millantando, confondendo. Lo suggerisce anche il sottotitolo dello spettacolo “Uccidi, racconta, sorridi”: Jack si lancia in struggenti dichiarazioni, sostiene con abilità articolate conversazioni e argomentazioni filosofiche, con charme e ironia (ma anche supponenza e un malcelato disprezzo) vuole convincerci di essere la vittima mentre come un vampiro sfrutta la risonanza mediatica intorno a sé per nutrire la propria natura narcisistica e la sua arte diventa lo strumento con cui riscrivere la propria storia, mentendo sui fatti reali e negando il sadismo e la violenza dei propri crimini. Ma che cosa è vero, cosa è falso e cosa è finto (inteso nella sua accezione etimologica)? Quali scene sono reali e quali sono invece espressione della sua creazione artistica e/o delle sue bugie?
Si fondono i piani di realtà, finzione e sogno, anche nella scenografia a cura di Erika Carretta e nelle luci curate da Fabrizio Visconti: pochi elementi in scena su diverse altezze delineano un paesaggio crepuscolare e spigoloso (che sia l’anima di Jack?) in cui grazie ai cambi luce si passa attraverso i vari “set” della vicenda, ossia lo studio televisivo, l’automobile, il bosco con le foglie secche, i salotti e le stanze di case borghesi apparentemente accoglienti che invece nascondono tradimenti, segreti e menzogne (non solo quelli del protagonista).
La stessa ambiguità si riflette nei personaggi: Jack viene interpretato da Tommaso Amadio, mentre tutti gli altri personaggi sono interpretati da Emanuele Arrigazzi, Sara Bertelà e Chiara Serangeli i quali, con rapidi cambi costume (sempre a cura di Erika Carretta) e un ritmo serrato grazie ai movimenti scenici curati da Marta Belloni, si trasformano in una giostra di personaggi che “svolgono il proprio ruolo” nel teatrino di Jack: il commissario, l’editore, il marito della vittima, l’avvocato, la prostituta, l’amante, la scrittrice, la poliziotta, la giornalista, la fidanzata minorenne, l’assistente, persino l’adorata Joy ossia il pastore tedesco di Jack… Chi presentato come crudele carnefice che fa di Jack un capro espiatorio, chi complice involontario dei tentativi di Jack di apparire innocente, nessuno può definirsi veramente estraneo ai fatti e il ritratto che emerge della società non è confortante: cinici, approfittatori, meschini, subdoli, insensibili oppure ingenui, stupidi, deboli, inetti… sono meglio di Jack?
Forse, la provocazione ultima di Jack è che siamo noi i colpevoli, morbosi voyeur di tragedie e violenze da tv spazzatura, perbenisti ipocriti pronti a osannare o condannare a seconda di come tira il vento e soprattutto in base a quale storia va di moda senza curarsi veramente del fatto che sia vera, appagati dall’estetica e incuranti dell’etica, ciechi di fronte a ciò che non vogliamo vedere e capire e incapaci di curare e impedire che certe disgrazie accadano (non solo in riferimento alla triste sorte delle prostitute uccise, ma anche di una persona disturbata come Jack Unterweger che non è stata assistita com’è giusto e necessario che fosse, ma è stata anzi usata da una certa élite di radical chic per il proprio compiacimento).
Bruno Fornasari, regista e autore del testo, pone questa domanda: “Che cosa accade quando vogliamo con tutte le nostre forze che qualcosa corrisponda alla nostra narrazione, tanto da convincere tutti che questa sia l’unica verità possibile?”.
Realtà e finzione, verità e immaginazione sfumano continuamente non solo durante lo spettacolo ma anche fuori scena. Si può arrivare persino a paradossi, infatti per quanto la vicenda si concluda con la sconfitta di Jack che si uccide, è come se lui riuscisse a strappare per sé l’ultimo colpo di scena, la rivincita, l’ennesima affermazione della rappresentazione sulla realtà: a fronte della dozzina di omicidi (se non di più) che gli vengono imputati, Jack Unterweger risulta ad oggi ufficialmente innocente a causa di un cavillo burocratico, essendosi ammazzato prima della sentenza d’appello. Dunque questo dramma non è solo un avvincente “noir”, ma sposta la riflessione ad un livello più alto di carattere filosofico (viene citata anche l’opera di Arthur Schopenhauer “Il mondo come volontà e rappresentazione”).
Lo spettacolo induce, inoltre, una presa di coscienza profonda e amara sulle potenzialità e allo stesso tempo i limiti e i pericoli dell’attuale “Era della Comunicazione”, in cui siamo immersi in un flusso continuo di informazioni spesso a discapito della qualità della notizia, in cui viene inculcata la necessità di raccontarsi (quanto è in voga lo storytelling?) “altrimenti non esisti”, in cui coloro che dovrebbero essere i più preparati e colti (o quanto meno, quelli più consapevoli del potere delle parole) sono stati a loro volta fagocitati da fake news, echo chambers, shit storms o ne sono i malevoli responsabili.
Un progetto organico e ben riuscito, in cui tutti gli elementi hanno con efficacia concorso al meritato successo (ricordiamo, non ancora citate, le musiche e i suoni a cura di Silvia Laureti). Un plauso va all’ottima interpretazione degli attori.
Marzorati
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