Berkoff introietta talmente bene la lezione osborniana di ricordare con rabbia, che il suo ricordo si perde nella notte dei tempi, nell’insolvibile nodo gordiano dell’Edipo. Fa mettere, idealmente, a Freud un bel chiodo in pelle nera, e a Sofocle un paio di jeans stracciati aderenti. Perché, se si deve rappresentare la hybris, lo si deve fare con stile, e, se si vuole prendere a sassate il cielo con le sue divinità, quale miglior modo che farlo in stile punk? Londra brucia, e, a comunicarcelo, è sempre la vocalità sporca, un po’ costipata e fatalmente urlante di un nuovo Strummer; ma, insieme a essa, brucia tutto il Regno Unito, quindi è, müllerianamente, fatale che la storia non abbia una morale. Niente coturni, please, bensì calze a rete, vestiti circensi, per questa meravigliosa opera da tre sterline. Il regista De Capitani scrolla, decisamente, di dosso a Sofocle l’affermazione nietzschiana secondo la quale quella drammaturgia, di questo tragediografo, sarebbe all’insegna dell’eroe passivo. Di passivo non ha proprio alcunché; questo working class hero ha combattuto le leggi celesti, e, nella vulgata dei Dead Kennedys, è lui a vincere, a trascinarci in un ideale pogo catartico, ad alzare idealmente il dito medio nei confronti del teatro aristotelico, a opporre alla dike una sorta di frenetico rave esistenziale che vive, anche e soprattutto, nella laringe.
La skenè ci mostra bene i segni del consumismo, i carrelli della spesa, l’unico deus ex machina che ha partorito il secolo breve. Nell’attesa che arrivi Godot, godiamo almeno un po’, con piacevoli vibrazioni al bassoventre, come ci ricordava il drugo di Arancia Meccanica. E poi viene il circo, vengono i colori forti di un espressionismo che mette il suo miglior sorriso sulla faccia della scena, mentre un’orchestra si esprime fino all’ultima battuta, come l’orchestra del Titanic, fino all’affondamento che seguirà. Il protagonista è una sorta di ibrido drammaturgico, in cui la fusione a livello genetico-molecolare si è realizzata perfettamente: è un Bakunin, un Dioniso stranito, anarchico, punk per vocazione, per cromosomica determinazione, che si siede ostinatamente dalla parte del torto, e guarda da quel punto di vista particolare, di sbieco, la realtà che lo circonda. E questa ribellione, alla foce sicura della confortante catarsi aristotelica, non poteva essere che all’insegna del teatro epico, di un brechtianesimo rivivificato, di un teatro politico che asseconda l’astronomico effetto redshift; fino alle estreme conseguenze del più convinto anarchismo, in cui i reali diventano uno scomodo oggetto di arredamento. Lo sprechgesang del protagonista è deviante, distorto, come una chitarra elettrica, ricorda quel modo unico di cantare di Sid Vicious. Niente immedesimazione, sembrano dire gli interpreti, siam inglesi. Quello che mostrano è un ultra Brecht, un piacere impiacentito, un gioco dialettico con il proprio personaggio e la platea, una risata irriverente, un gesto osceno, un linguaggio che faccia l’effetto dell’elettricità sulle rane galvaniche del pubblico.
Marco Bonadei, il protagonista Eddie, offre un ‘interpretazione potente, rovesciando, sulla pietra del microfono, gocce roventi di saliva, fonemi carichi di una rabbia esistenziale offerta, non in remissione, ma per la dannazione dei nostri peccati. Brucia, come il replicante di Blade Runner, la sua candela da entrambe le parti; in scena, non risparmia neanche un goccetto d’anima, e si dona generosamente alla platea. De Capitani è un clown sofocleo, un Laio laido, un padre adottivo che prende a pugni la vita sottoproletaria con la smorfia della comicità, e, tra una saracca e l’altra, ben ci sta l’organetto circense del pappapararaparàpappara. Cristina Crippa, la madre adottiva, ma soprattutto, la Sfinge, irriverente, postmoderna, estrema, è la mistress di questo tragico peep show esistenziale; è il femminile persefonesco, oscuro, nero, molto al di là del politically correct, all’insegna di un femminismo che, per citare una battuta del Leone d’inverno, sbeffeggia: “ I piss… on our peace!”. Sara Borsarelli ci offre una Giocasta ben poco casta, un essere che esplode in femminilità da ogni poro, creatura biomeccanica che spiega il suo corpo in una danza sciamanica d’amore; forse crede in dio, sicuramente crede nella sua carne. L’orchestra kurtweilleggia alla perfezione, sottolineando meravigliosamente i numeri circensi, pop, in questo spettacolo d’arte varia di persone innamorate del teatro, fino all’estrema follia. La migliore chiosa a siffatto lavoro appartiene alla fatale, crudele, caustica penna di Artaud: “nessuno ha mai scritto, dipinto, scolpito, modellato, costruito o inventato, se non per uscire letteralmente dall’inferno”. Paint it black ancora e ancora, De Capitani, e mettici quella stupenda, irriverente linguaccia di Einstein sopra!
Danilo Caravà
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