
Avrebbe dovuto esserci una Santa Giovanna degli altiforni, di brechtiana memoria, per salvare gli operai della Thyssenkrupp dalla bulimia di plusvalore dei dirigenti, e lo sa bene l’autore di “Acciaio liquido”, Marco Di Stefano, nonché la regista Lara Franceschetti, che trovano l’anima buona e cattiva di un Sezuan torinese negli interpreti, in grado di fare un buon lavoro di squadra, impegnati nel duplice ruolo stevensoniano di vittima e carnefice, di salariato e dirigente. In una scenografia “nuda sed venusta”, composta da tre tavoli metallici con le ruote ed alcune panche, le luci si sforzano di inquadrare con accuratezza fotografica i corpi di questa vicenda.
Il lavoro teatrale prevede cinque blocchi, nel primo i colletti bianchi, o meglio neri, s’agitano in una sorta di immaginario labirinto, come cavie da laboratorio in cerca dell’uscita, di un mantra liberatorio che porta il nome della parola “delocalizzazione”. Nel secondo i dirigenti si giocano a dadi il destino dei lavoratori, e sull’ara del profitto immolano la vita degli operai, inscenando una dialettica stanca, dove il “no” ha più il sapore di una posa, di un dubbio sbiadito, già spento prima di nascere.
Nel terzo i lavoratori rimangono “bloccati” nello spogliatoio della ditta, al pari dei borghesi di Bunuel nelle stanze del film l’Angelo sterminatore, il servo-meccanismo dell’esistenza in fabbrica riproduce se stesso, mentre le coscienze s’agitano, come meglio possono, per sfuggire a questa cattività industriale, dove si percepisce il mondo come se non ci fosse altro che fabbrica. Il tempo si ferma per catturarli nella loro quotidianità, forse per dare loro l’opportunità di raccontarsi come il condannato a morte di Borges. Le voci si scaldano, diventano vere dopo qualche bicchiere di confidenza e condivisione, e si può ascoltare persino uno stralcio del Prometeo incatenato il cui fuoco brucerà pesantemente le carni di questi lavoratori.
Nel quarto, anticipato dalle voci concitate in cerca di soccorsi, vive il racconto dei parenti, incastonato in tre luci a pioggia, messe lì per catturare, con precisione entomologica, la voce disperata e disperante di questi personaggi. Merita una particolare menzione l’attrice Federica Armillis che recita la parte di una Andromaca straziata, che piange il suo Ettore morto sul campo di battaglia di questa Troia siderurgica. Si abbandona alla naturalità di una recitazione ventrale che graffia, che scuote, i suoi fonemi s’arrochiscono, come il corvo macbethiano, per raccontare una tragedia che si è già consumata. Nel quinto i dirigenti, ad un passo dalla condanna, recitano il loro finale di partita, tra ammissioni, riluttanze, paure e stoiche rassegnazioni. Interessante il finale in cui definitivamente gli interpreti si spogliano dell’anima “capitalistica” e tornano alla nudità della condizione operaia, inscenando una tragica pantomima, nella quale si ha l’impressione di vedere l’acciaio liquido violare i loro corpi.
Impazza sulla scena una furiosa taranta, una crisi comiziale, un corto-circuito del racconto, una voluta elettrificazione del corpo scenico, che si contorce come le rane galvaniche, vittima di una tecnologia che lo devasta e lo vince. Forse solo lo sguardo innocente della Vincenzina davanti alla fabbrica, evocata dalla canzone di Jannacci, potrebbe restituire uno sguardo diverso, un’anima, a questo acciaio che si fa fuoco, mentre Prometeo, da qualche parte, con le catene gli stringono i polsi, si domanda con ogni probabilità a che è valso rubare il fuoco con cui gli uomini si sarebbero un giorno fatalmente scottati.
Danilo Caravà
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