Recensione: “4:48: Psychosis”

psychosis

Corre veloce con le parole l’interprete, fila così rapida che non si riesce a starle dietro, e a un certo punto appare come un puntino all’orizzonte. Dalla platea si assiste ad un torrente in piena, un diluvio, un rosario di un martirio psichico sgranato con l’espressione munchiana nel cuore, di fronte ad un metafisico silenzio, un mantra di ricerca d’amore ripetuto fino ad usurare la laringe e le corde della volontà. C’è una Molly Bloom con i fucili della drammaturgia inglese più arrabbiata sotto il cuscino, un flusso di coscienza inarrestabile, che testimonia non la rarefazione di una mente, piuttosto la sua presenza marcata, la coscienza talmente  presente a se stessa, da farsi pensiero caustico, corrosivo. E’ stupefacente verificare quanto sia penetrativa questa parola, quanto riesca a scavare la carne, e porti lo stigma di una psicologia misurata sul bilancino farmacologico di un’asettica scientificità, che non ha gli strumenti corretti per poter indagare questo mistero.

Elena Arvigo è posseduta da un dio, da un ineffabile assoluto, ha nel codice genetico le tracce di un’Antigone, che forse adesso sarebbe trattata a benzodiazepine e colloqui al servizio psichiatrico territoriale. D’altronde la voce d’amore, il suo bisogno d’amore, in tutta la sua cruda verità, è così, vero come uno schiaffo che ti brucia sulla faccia. Immaginate un angelo caduto che non abbia le ali, ma non abbia scordato la sensazione di volare, che senta ancora la presenza di quelle estremità, subendo una sorta di sindrome dell’arto fantasma, questa è la condizione della protagonista. Nel nero che le incombe da tutte le parti, che la schiaccia, la devasta, l’unica luce è quella che le viene dal di dentro, traballante ed instabile al pari di quella di un vecchio neon. I suo fonemi sono fiammiferi di prevertiana memoria , meglio ancora quelli della piccola fiammiferaia; e non sono in grado di scardarle il cuore, mentre un gelo siberiano si fa cosa salda, mostro raccontato nei minimi dettagli. Eppure queste battute, queste macchie strisciate di colore di un treno ad alta velocità, sanno sostare per un istante che vale un’intera vita dostoeskijana. E hanno un odore di esistenza vissuta con un’enorme intensità, di una candela che brucia di sopra, di sotto e sui fianchi. Il disagio, come condizione esistenziale, è una scomodità irrisolta, che nessun cambio di posizione è in grado di risolvere.

Il respiro ha dentro manciate di chiodi sottilissimi, e il tempo stesso è una goccia di acido che continua a cadere dal soffitto, dal quale non calerà più un deus ex machina, per risolvere la situazione. Vladimiro ed Estragone hanno già consumato tutta l’attesa che si poteva immaginare, non resta che il cappio, tutto è incompiuto. L’unica vera cosa sacra rimane il patrimonio di parole, il senso di un corpo che viene avvertito come un paio di scarpe davvero troppo strette, o, peggio ancora, un cilicio non voluto, un letto di chiodi. Il vessillo, sotto il quale, idealmente, marciano nel labirinto esistenziale l’autrice, ed insieme la protagonista, è quello di un Cioran, della dichiarazione risolutiva da gioco-set-fine partita del “vivere è perdere terreno”. Ecco ,potrebbe essere un personaggio di un nerissimo racconto di Poe, che, sin dall’inizio, sente il suo cuore rivelatore batterle ossessivamente nella testa, oppure l’angoscia dell’essere stata sepolta viva nell’esistenza. D’altra parte persino l’elegantissimo uomo in frack, dell’omonima canzone, avrebbe raccontato il suo suicidio in una maniera diversa, se gli fosse stata data la possibilità di monologarci sopra. Che stupendo miracolo compie la regista Valentina Calvani, riuscendo a strizzare da queste parole, disperate e disperanti, tutta la poesia, tutta la voglia invincibile, destinata a rimanere frustrata, di abbracciare tutto, anche l’invisibile, con piccole braccia.

Elena Arvigo riesce a trovare un affascinante ossimoro scenico attraverso la velocità estrema del suo eloquio, e la lentezza di un corpo che è piombo fuso sopra lo spirito. Ha la capacità di mostrare quanto quest’anima sia certamente stata recalcitrante ad incarnarsi, non si sia ben bagnata nell’acqua del fiume Lete, e si porti addosso la memoria ineffabile di un prima eterno, di un senso di libertà ora in cattività, inchiavardato nella prigione del torace, come il proprio cuore. Un altro albatros di Baudelaire caracolla malamente, se costretto a zampettare sulla terra, viene preso in giro, e si prende in giro da solo. Mentre la raffica del fucile della laringe scarica sulla platea dei proiettili full metal jacket, blindatissimi. Ma, se li si raccoglie da terra, si è in grado di sentire il profumo di fiori, loro malgrado, del male interiore, profumatissimi, distanti e tremanti come stelle. Ci vogliono gli  occhi grandi dell’Arvigo, quelli dei ritratti femminili di Margaret  Keane, per raccogliere tutto questo dolore, che ha più forza dell’eroe tragico, perché rinuncia alla catarsi, e ci guarda tutti senza sconti per lasciare a ogni spettatore , dopo i meritatissimi applausi, una voglia d’amore.

Danilo Caravà

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