La favola-inchiesta ispirata a Pinocchio del duo registico è un inno alla vita, e lo raccontano in questa intervista

Di Veronica Fino
Cari Amici di ProfAmà,
“In stato di grazia” è lo spettacolo delle registe Francesca Merli e Laura Serena, in scena al Campo Teatrale , ancora fino a stasera. Perciò, vi esortiamo a comprare un biglietto per assistervi, in questa domenica di pioggia.
Serena è anche attrice insieme ai veri protagonisti, 8 ragazzi adolescenti. Alcuni di loro hanno delle disabilità, ed è questo a renderli ancora più speciali. Sono ragazzi In stato di grazia.
Dopo aver visto “La banca dei sogni“, Francesca, Laura ed io ci eravamo lasciate con una promessa: avrei assistito a “In stato di grazia“.
L’ho fortemente voluta mantenere, ed è stato un vero regalo. Anche grazie, doverosamente, a MilanoTeatri.
“In stato di grazia”: lo spettacolo
Lo spettacolo esplora i rapporti tra genitori e figli in un intenso scambio di narrazioni fra ripresa video di mamme e papà e presenza scenica degli attori figli. Merli e Serena si sono ispirate a Pinocchio.
Anche il rapporto del burattino con Geppetto è di grande affetto ma, anche, di contrasti. La scena, essenziale, si apre con 8 ceppi di legno davanti al fondale/schermo. Il prologo parte proprio su quello stesso schermo. Riporta una dicitura esaustiva: “la loro storia è ancora quella, l’origine non cambia. Ma qualcosa, dentro, si muove”.
Serena, insieme a Marco Trotta, ci anticipano lo “stato di grazia”, uno stato di stra-ordinarietà, quello che gli attori hanno come proprio. Uno stato che richiedere euforia, pertanto eccezionale. Di grazia, per l’appunto.
Dall’antefatto, si evince il passare del tempo. Quei ragazzi che arriveranno in scena sono gli stessi che già avevano partecipato alle versioni precedenti, eppure diversi. Ormai cresciuti. (lo spettacolo nasce anni fa -n.d.r.-).
Narrazione fra attori sul palco e schermo
Nel buio della sala, inizia il gioco di narrazione combinata fra schermo, dove sono i genitori intervistati, e i ragazzi, che sembrano i fari luminosi del palco con la loro energia vitale.
Laura Serena diventa così la Fata Turchina, maestra dei ragazzi. Anche loro, come Pinocchio, hanno contrasti con i genitori. E Trotta è una sorta di grillo parlante, una voce a guidare loro e le loro storie.
E così, quelle dei protagonisti si svelano. Dal concepimento, ai timori per la nascita e le scelte difficilissime, i ricordi preziosi, le preoccupazioni per il futuro, scopriamo anche particolari della vita dei giovanissimi. Le loro paure, i loro sogni, le loro risate.
Le loro caratteristiche, le loro forme di disabilità, fra sindrome di down, autismo, ritardi cognitivi e disturbo ipercinetico, altro non sono che unicità. Valore umano (r)aggiunto.
Nondimeno, si svelano anche i primi turbamenti amorosi tipici dell’adolescenza e del passaggio a giovani adulti. Ognuno di queste tappe nella vita di Raffaele, Emma, Tiago, Matilde, Chiara, Artur, Lorenzo e Carlotta, si trasforma in scoperta per madri, padri e figli.
Li vediamo come tali, attori brillanti sul palco, e attraverso i racconti e le parole dei genitori sullo sfondo.
Teatro fra cinema e arti performative
Improvvisamente, il teatro diventa luogo più vero della realtà. Discriminazione e intolleranze scompaiono, mentre ogni attore porta un pezzo di sé. Dove il cinema dell’audiovisivo incontra le arti performative. Il gruppo che recita è quello di amici cresciuti in scena che In un suggestivo andirivieni di corpi ed emozioni, si rincorrono parole, suoni, gesti -articolati o meno-, silenzi.
Fra loro, c’è il piccolo Tiago, affetto da sindrome di Down, che parla un linguaggio tutto suo. C’è la piccola Chiara, a sua volta con la stessa sindrome, non ama il rumore degli applausi e preferisce, anzi, il solo movimento delle mani. Gesti semplici e potenti, a mostrare come i linguaggi, pur cambiando, veicolano messaggi assoluti.
Chiara, inoltre, è la sola sulla scena a indossare un costume diverso: non il completo con collo a gorgiera, bensì un bellissimo tutù in tulle rosa. Adora danzare, e lo fa sulla musica di Tchaikovsky, esattamente come quando balla con il suo adorato papà.
Raffaele ha l’ADHD, è un diciassettenne forte e innamorato dei suoi. Con i suoi primi sentimenti per le ragazze. Artur, ipercinetico e con diagnosi di ADHD, arriva dall’Ucraina. E ci porta in quella sua terra lontana facendoci ballare sulle note di una musica tradizionale di Kiev. Matilde ha avuto problemi alla nascita, prematura. Di conseguenza, la sua voce ha un suono caratteristico.
Anche gli altri ragazzi non mancano di esprimersi ed esprimere le loro unicità. Fra verità e qualche bugia. Mostrando deficit motori, senza averne timore, sempre seguendo passioni, amicizie e ambizioni. Bravissimi, imperfetti, ideali nel dar valore al legame che si crea e si rinsalda poco a poco. Di stato di grazia in stato di grazia.
L’imperfezione del singolo porta alla grazia: la perfezione poetica dell’insieme
Il teatro assume un valore duplice. È luogo fisico, palco da condividere e sul quale recitare. Inoltre, ha il valore del ritrovo, luogo dove sentirsi parte integrante di qualcosa di più profondo. Dove poter liberamente parlare. Dove poter amare. Senza filtri, come loro.
Come il personaggio della favola di Collodi, alcuni non amano la scuola, perché spesso cercano un luogo diverso dove rifugiarsi. La ragione è il peso delle diversità. Successivamente, veniamo a conoscenza di come la scuola non sia realmente quel luogo pensato per includere anche ragazzi diversamente abili, e del perbenismo che rasenta ipocrisia. Dove questa si insinua, il contributo all’inclusività vera è minimo.
Il teatro, invece, valorizza le unicità degli 8 spiritelli curiosi e sorridenti. Li rende magici. Il loro lavoro sulla scena, i respiri, i balletti e le pause assumono significati lirici. Con un risultato più coinvolgente di quello di qualsiasi attore “normo”. Grazie a quell’enorme carica vitalità che trasmettono.
La pancia della balena finale è il punto in cui, superata la paura, resta il coraggio di questi 8 ragazzi e ragazze di addentrarsi verso la perigliosa (e meravigliosa -n.d.r.-) strada della crescita. Dove vedere la luce, o –forse– inondare di luce chi li circonda.
L’amore come chiave universale: il coraggio di essere genitori speciali
A completare e narrare le storie sono, come già accennato, i genitori. Nelle interviste, mostrano tutta la fragilità delle loro paure per il futuro dei loro figli, le loro speranze per loro, le scelte difficili e i momenti più complessi del loro rapporto. Però, nonostante il loro percorso di vita sia diversissimo, ognuno di loro ha in comune una forza coraggiosissima e straordinaria, nell’affrontare le sfide della disabilità dei figli. (Lo sappiamo: non importa quanti anni abbiamo, per i nostri siamo sempre i loro bambini!-n.d.r.-)
Le parole di ognuno di loro assumono un significato assoluto di sacrificio, impegno, speranza e preghiera. Di grazia. Non è un caso se vero fil rouge alla base di tutto, sia sempre e senza dubbio alcuno, l’amore. Sopra ogni cosa, sopra ogni difficoltà. L’amore diventa il motore della forza che questi straordinari genitori esprimono e donano, nelle loro debolezze. Perché diventano verità archetipiche, poiché l’amore è l’elemento che lega e dislega. Che rende famiglia un gruppo di persone, come quello di questi eccezionali ragazzini che si comportano vivendo il palcoscenico e la bellezza che esso dona. Fra nebbie, musiche, palline gioco a chiudere su quella luce che finalmente si fa spazio. Sicuramente fra i cuori di chi ha assistito, dove quei loro volti e volteggi sanno restare.
E che vorresti rivedere e riscoprire.
L’intervista a Merli e Serena
Questa favola inchiesta fa parte della “Trilogia della Realtà” insieme, come già evidenziato, “La banca dei sogni” e “L’arte di vivere”. Le produzioni sono tutte di Domesticalchimia.
Scritto da Merli e Serena, in collaborazione con Lia Gallo, “In stato di grazia” è stato coprodotto da Campo Teatrale e Teatro Franco Parenti, con il contributo di Comunità Milano, a evidenziare l’impegno sociale.
Ma ora, dopo questa lunga e personale visione sullo spettacolo, Vi lascio al piacevole scambio con le registe.
VF: «Ragazze, che bello ritrovarvi! Complimenti a entrambe, bellissimo.»
FM e LS: «Grazie!»
VF: Ho pianto un casino, ma tutto bene.» ( Fra le risate generali, riprendo -n.d.r.-) «Credo sia normale, estrapolare e amplificare emozioni in questo tipo di spettacoli, e i ragazzi sono bravissimi. Sono veramente bellissimi, soprattutto così legati. Insieme. Così come ho trovato poetica la Banca dei sogni, questo spettacolo è lirismo, tira fuori tutta la bellezza di questi ragazzi. Ed è un po’ la vostra caratteristica, trovare la poesia. Ci siamo lasciate, con la promessa di venire allo spettacolo e sono molto felice di essere qua.
Dal libro a cui vi siete ispirate, “La banca dei sogni” di Duvignaud e Corbeau, che analizza il mondo onirico, c’è stata tutta l’evoluzione della vostra Trilogia della Realtà. Come siete arrivate a questo spettacolo specifico? Quanto è cambiato nel tempo? E come è cambiato?»
LS: «La banca dei sogni ha avuto un’evoluzione maggiore, nel senso anche più formale, perché partiva dalla partecipazione delle persone e poi siamo arrivate al video. Però in realtà, con questo spettacolo, noi abbiamo formalizzato l’uso del video, è stato il primo esperimento in cui lo abbiamo inserito.»
FM: «Fun fact: quasi non mi ricordavo questa cosa! (Ri-scoppiamo in risate, è il bello delle relazioni che si creano a teatro, anche fra non addetti ai lavori -n.d.r.-)»
LS: «”In stato di grazia” è stato il primo tentativo in cui portare le persone intervistate. Infatti, l’idea iniziale era proprio quella di conoscere meglio i ragazzi attraverso i genitori. Quindi, con delle semplici interviste che, all’inizio, non prevedevamo dovessero entrare. Poi è diventata anche un’idea registica e quindi c’è stata tutta questa forma di interazione che è diventata una cosa che abbiamo usato altre volte, insomma. E per l’evoluzione dello spettacolo, invece, abbiamo sicuramente cambiato il testo man mano, affinando il testo, aggiunto pezzi, mentre i ragazzi sono cresciuti e quindi qualcosa è cambiato e magari lo si vede anche.»
VF: «Anche in loro probabilmente.»
LS: «Ecco, questa sarebbe una domanda per il pubblico perché magari voi li vedete in video e poi li vedete dal vivo, non so cosa percepiate del cambiamento.»
VF: «Si percepisce, comunque, spesso anche una forma di consapevolezza diversa, sicuramente nella relazione con il palco e anche con il pubblico stesso. Anche nel relazionarsi fra loro, nella forma di gruppo, risulta più evidente. E poi sono propri incantevoli quando si spalleggiano, hanno grande intesa e partecipazione fra loro. Insomma, ho visto dei ragazzi felici. È, forse, la parte più bella.
LS: «Si è creata una bella squadra. È uno spettacolo che per noi attori è veramente uno spasso. Dico sempre che, quando devi andare in scena, devi anche trovare una motivazione ogni sera per rivitalizzare ciò che fai. Invece, in questo caso, loro sono talmente entusiasti, sempre super carichi. Sono lì che dicono: Eh anche stasera andiamo! Quindi tu sei trascinato da questa euforia, quello di cui parliamo all’inizio.»
VF: «Com’è arrivato lo spettacolo al pubblico? Come lo ha accolto all’inizio, le prime volte? O la prima, se ve la ricordate.»
FM: «La prima, forse, l’abbiamo fatto qua (al Campo Teatrale -n.d.r.-) e c’era anche una mostra fotografica. Veramente, è uno spettacolo in continua evoluzione. Magari, non lo so, non accoglie sempre l’apprezzamento totale di tutti magari, per lo stile, ma non penso passi così inosservato. Credo che in qualche modo arrivi questo pugno in pancia, così come anche la freschezza dei ragazzi. Nel senso che c’è sì, una griglia, anzi, ci sono molte griglie, però loro sono, come dire, (ride -n.d.r.-) ingrigliabili.»
In quel momento, arriva Matilde a salutare Francesca e Laura, tenendoci a farle sapere che stava ascoltando Blanco. L’indomani, si sarebbero scaldati con una delle sue canzoni. E non manca Raffaele, che con la sua bella giubba verde e bianca dei Rams (storica squadra di football milanese), spiega ai vari genitori e alla mamma in particolare (che sospira -n.d.r.-) e alle registe come debba assolutamente essere sempre in campo per mostrare le sue capacità e arrivare alla nazionale juniores. I sogni e le ambizioni dei ragazzi, ce lo insegnano, sono sempre in grande. Dove meritano di stare.
Basterebbe questo off topic per far comprendere quanto sia stretto il legame complice fra le registe e quelli che ormai sono anche i loro ragazzi.
Tornando alle nostre domande e riflessioni, Francesca riprende.
FM: «Crediamo molto in realtà nel processo creativo del nostro percorso artistico di questa trilogia che veramente vuole, nel reale, trovare qualcosa di vero, per poi cambiarlo chiaramente, però di attingere a qualcosa che in qualche modo ci smuove, ci anima. E poi, lo dicevamo sempre con Laura che all’inizio ci sono questi macro-temi: i sogni, la disabilità, la morte. Però, poi, il fatto è piccolo. Infatti, è il rapporto d’amore tra questi genitori e questi figli. È sempre una cosa un po’ più piccola, è un fatto più privato. Anche se poi l’istanza sembra minore, ricerca è grande. In questo caso, abbiamo proprio ricercato nelle storie di queste famiglie, però abbiamo avuto contatti anche con tanti altri ragazzi con disabilità, con psicologi. Però, diciamo, si parte sempre da un grande bacino per poi raccontare un fatto piccolo.»
VF: «Alla fine il filo conduttore è sempre quello, è l’amore che viene trasmesso e percepito.»
FM: «Sì. Poi cerchiamo di affrontare questi quattro grandi temi che sono, appunto, l’origine di questi ragazzi perché hanno tutti delle storie molto particolari e anche proprio come nascite: nascite premature, adozioni. Poi, c’è la formazione e la scuola e le barriere che mette la scuola, se veramente questa cosa dell’inclusione c’è o no. Parliamo di un tema che è un po’ tabù, quello della sessualità, affrontata da ragazzi disabili, che è difficile anche arginare, fino a poi affrontare, appunto, questo futuro dove non si sa che fine faranno in questa pancia della balena. Perché poi, in realtà, sostanzialmente, la paura di questi genitori è proprio l’indipendenza, che siano soli. È un po’ questa l’interrogazione.»
VF: «Conosco una persona con grave disabilità psichica e di peso molto importante che ha comportamenti molto emotivi, però a volte anche violenti. Ed è capitato che alcune strutture diurne, dove pur ci sono ragazzi con grosse disabilità, non la accogliessero più, per preservare anche gli altri ospiti. E, esattamente come hai spiegato, il tema tabù della sessualità, è complesso da contenere talvolta. Proprio perché si riconosce come una persona, con gusti, decisioni e pulsioni. E ora, dopo aver vissuto una dinamica lavorativa in questi centri, è dura per lei restare a casa. Conoscendo i genitori, vedendo quelli dei ragazzi, ho rivisto, anche nelle loro parole, la difficoltà nel pensare al futuro.»
FM: «Certo, diventa difficilissimo. È uno dei temi conduttori, che poi è universale per i genitori, sapere che cosa faranno i figli, o che fine faranno. Tutti, indipendentemente dalla disabilità.»
Il ruolo genitoriale nella società a confronto con quello dei ragazzi diversamente abili
VF: «Parlando dei ruoli dei genitori: spesso si definiscono assenti. Ovviamente, non è il caso di queste mamme e papà, però spesso vediamo situazioni in cui i ragazzi sono un po’ abbandonati a loro stessi. Quindi la domanda è, siamo arrivati al punto in cui “serve” una disabilità per vedere i propri figli? Avendo a che fare con tanti ragazzi, magari vi siete accorte di una cosa simile o è pensiero da sfatare?»
LS: «Risponderei, di getto, si. Ma poi mi rendo conto di non avere un’esatta coscienza di com’è l’essere genitore oggi, perché non ho bambini. Tuttavia, adesso che stiamo lavorando a un progetto, sempre con “la banca dei sogni”, coinvolgendo gli adolescenti a Pergine (Babilonia Teatri Festival di Pergine -n.d.r.-) e lì, stiamo semplicemente chiedendo che i ragazzi rimangano a fare delle prove di teatro e che i genitori vengano a prenderli.»
FM: «Perché finendo fuori orario scolastico, qualcuno li dovrebbe recuperare fuori. E gli insegnanti ci hanno detto che i genitori non vanno a prenderli.»
LS: «Esatto, ci hanno spiegato che i genitori non si occupano di queste cose, e a me pare molto strano. Mi dico “okay, e di cosa si occupano?”. Nel senso che, se il figlio fa un’attività, che in teoria è anche formativa, dovresti avere cura di questa cosa, no? Invece, ci hanno proprio risposto che i genitori non si occupano di queste cose; anzi, si devono arrangiare. Strano, appunto, perché pensavo che i figli, al giorno d’oggi, fossero più accuditi e, invece, pare l’esatto contrario.»
VF: «Penso siano tamponati, parenti e figli, da quelli che sono gli schermi. Perché alla fine ce li lasciano davanti anche per tenerli occupati, li sottopongono a tre, se non cinque attività diverse a settimana, senza interagirvi troppo alla fine. Mi è capitato di sentire una mamma al doposcuola, facendo volontariato in oratorio, il venerdì, rispondere che non le importava che il bambino avesse finito di fare i compiti, perché lei “aveva spinning”. Non si giudica in alcun modo, ma si resta perplesse, perlomeno.»
LS: «Okay, le priorità…» (-sospiro inevitabile n.d.r.-)
FM: «Sì, probabilmente, è ciò che raccogliamo da anni di pensieri individualista. È probabile. Poi, per carità, non credo che, una volta, avessero così tanti fattori e stimoli esterni, nemmeno le famiglie che lavoravano. Però è comunque difficile tirare le somme. Ma allo stesso modo è bello vedere, in questo caso, come invece sia necessaria la cura costante, e come queste persone siano profondamente legate.
Sono esempi fioriti di amore genitoriale e viceversa.»
VF: «Fra l’altro, il papà con Chiara era dolcissimo. Vederlo ballare con lei, la sua principessa, stupendi»
FM: «Lui è uno di quelli che non solo accompagna, ma l’aspetta fuori dalle prove, restando tutto il tempo in teatro.»
VF: «Piero Angela si chiedeva cosa possiamo farcene di ragazzi che prendono voti alti a scuola, se non sono in grado di intervenire quando viene fatto del male a un compagno; quando pur avendo prestazioni eccezionali, non hanno strumenti per aiutare un amico e riconoscere un bisogno. Lui stesso sosteneva come un figlio debba, prima, diventare un uomo, inteso come persona con valori, piuttosto che risultato di una società in cui puntiamo troppo sulle prestazioni. Voi condividete questo pensiero nella vita di tutti i giorni, così come a teatro, e nelle relazioni fra ragazzi?»
FM: «Questi ragazzi sono ancora più performativi dei ragazzi abili perché sembra che debbano dimostrare di più solo per essere compresi. Anzi, lottano in questo stato di grazia di essere loro stessi e di essere uguali, conformi alla società, a quello che chiede loro il genitore, o a ciò che chiede loro l’insegnante di sostegno. Non hanno solo una maggiore difficoltà perché faticano a parlare, comunicare e le altre varie difficoltà. Hanno più difficoltà nella loro esistenza. Ma in loro c’è quella parte di originalità, che in realtà abbiamo insita in ognuno di noi, e che loro hanno, ma è come se accendessero altri canali. Ad esempio, un ragazzo autistico accende il ritmo, o Matilde che ha una memoria pazzesca. Amplifica, ed è il suo modo originale di comunicare. Ma Matilde, ad esempio, è felicissima di fare le prove per 12 ore. E poi, sa ridere profondamente, e ridere sempre.
Quindi, sì, sono straordinari perché hanno dovuto amplificare un altro sentire, o altri modi di sentire. E forse anche i genitori sono straordinari per questo. Magari altre volte li soffocano, però sì, c’è un amore forse ancora più incondizionato.»
LS: «Sì, e più viscerale anche.»
VF: «Quanto è stato difficile per voi o facile lavorare con questi ragazzi? Come vi siete sentite?»
FM: «L’inizio è stato molto difficile, quasi impossibile.»
LS: «Sì, non sapevamo come gestirli. Però sono stati fatti passi da gigante quando hanno cominciato a fidarsi l’uno dell’altro, hanno cominciato ad esprimersi: prima anche solo gestualmente, poi pian pianino anche verbalmente. Chiaro, si sono evoluti anche nel corso degli anni, anche per altri motivi, non solo per il teatro. Però, vedere come si aiutano qua, è parte del processo teatrale. Alla fine esso ha il bel valore di fare squadra, tant’è che il teatro dovrebbe essere una materia insegnata a scuola.» (lo sostiene anche un altro ospite di ProfAmà, Andrea Colombo -n.d.r.-) «Cioè loro proprio si galvanizzano l’uno con l’altro. Però, all’inizio veramente non sapevamo dove battere la testa…»
Le due si guardano e scoppiano a ridere. Affiatate. Amiche.
Di nuovo Laura, aggiunge: «Perché, per esempio, Chiara non parlava con nessuno e si isolava; Matilde non parlava e, invece, adesso finalmente parla.»
VF: «Perché sente la fiducia. Anche solo il fatto che abbiate dato loro una voce, un’occasione, credo che sia stato quello, il valore aggiunto, magari anche una chiave di comunicazione per voi.»
FM: «Per loro, per noi, ma anche la pratica, penso. Questa è la terza volta che facciamo repliche su Milano, forse anche la quarta. Quindi sono ragazzi che la mattina vanno a scuola, poi vengono qua, fanno matinée e serale.»
LS: «Sì, sono anche tanto disciplinati. Tiago una volta era una mina impazzita, adesso è molto educato; ha sviluppato una coscienza del rispetto. All’inizio, era il caos perché facevano di tutto e incontrollatamente. Non avendo legami tra di loro, ognuno amplificava la sua follia. Cioè come dirti, non comunicando, erano tutti delle bombe pronte a esplodere. Invece, poi hanno cominciato a capire come stare l’un con l’altro e, da quel momento, sono sbocciati.»
VF: «Che cosa vi ha lasciato e cosa vi lascia questo spettacolo ogni volta? Suppongo sia una cosa che si rinnova.»
LS: «A me gioia, e il non sentire la fatica di lavorare.»
FM: «Al contrario, io sento molto la fatica. Proprio tanta, di tenere un gruppo così diverso; non è la fatica con loro, ma quella di mettere in atto una roba che è veramente un’armata Brancaleone. Quindi, anche la gestione dei genitori, di tutto l’insieme, e lo dico in senso positivo perché, davvero, sono bravissimi, però è tutto moltiplicato per 8 ragazzi.»
Un atto politico, un gesto artistico. Uno spettacolo con una ragion d’essere
FM: «Però, dall’altra parte, sento veramente, anche se è un po’ becero da sottolineare, che sia uno spettacolo che abbia, sai, quella roba dove si dice “Ah! Ma è un atto politico”.
Ebbene replico che sì,
è un atto politico: perché siamo due donne che fanno uno spettacolo con 8 minorenni, e alcuni hanno delle disabilità. Ed è anche per questo che, certe volte, mi fa incazzare il fatto che la grande critica non si concentri su uno spettacolo che in realtà ha, secondo me, e magari è una roba arrogante, una ragione d’essere.
Noi prendiamo un atto politico e proviamo sempre a farlo mettendoci a rischio e a nudo, no? Perché tu ti metti a rischio quando fai un atto così. Però non ci stanchiamo di questa lotta, la faremo sempre. Però, sì, è un atto politico. Almeno, secondo me.»
VF: «Penso sia più che altro un atto socialmente dovuto.»
FM: «Sì, è socialmente dovuto però è anche un gesto artistico. Ma è un gesto che ci piacerebbe che avesse una risonanza. Quindi è un po’ difficile certe volte fare certe affermazioni, come se già il fatto che ci sono dei ragazzini potesse rendere la cosa de-professionalizzante, ma non è così.
VF: Assolutamente no, anzi. Ragazze, grazie mille per il tempo che ci avete dedicato, ci vediamo presto.»
Uno spettacolo che lascia un segno. Un regalo prezioso
In conclusione, dopo anche questa chiacchierate, posso affermare con forza che questo spettacolo segna.
Un nuovo confine di teatro che torna a mescolarsi nella vita vera.
Una nuova modalità per mescolare arti visive di natura ordinariamente diversa.
Un nuovo tipo di spettacolarità.
Un’evidenza del potere prorompente delle donne che, quando si uniscono e creano, realizzano qualcosa di grandioso, in cui credere.
Però, per me quel segno è come (ampliamente, ormai credo mi conosciate un pochino -n.d.r.-) anticipato, un regalo che mi hanno fatto Laura e Francesca. E che va oltre lo spettacolo.
Come spesso accade con la magia dei Teatro, che, dalla scena, scatena emozioni nella vita di chi vi partecipa. I ragazzi si muovono su un palco che sembra plasmarsi per ognuno di loro.
È un’emozione inattesa: si odono voci in sala commuoversi e si colgono sorrisi e abbracci finali a quegli incredibili (o credibilissimi, e proprio per questo eccezionali -n.d.r.-) genitori.
La purezza del movimento, delle parole pronunciate e dei non detti appena abbozzati si fa largo e travolge il pubblico.
Tutto è, dunque, un inno di realtà che si fa teatro, più che il contrario: diventa un dono della vita. Come i ragazzi per i genitori e per le due straordinarie donne che li hanno scelti come esseri da svelare. La metafora di Geppetto che, intagliando il legno, ottiene un burattino che magicamente diventa un vero bambino è la chiave. Anche se come adulti diamo forma alla figura umana, essa si caratterizza e si struttura autonomamente, divenendo più forte nelle sue criticità.
Questi ragazzi non hanno nulla da dimostrare, ma dimostrano quanto potenziale ci sfugge talvolta, nella frenesia della nostra costante (e ossessiva, nonché inutile) ricerca di perfezione. La bellezza. Loro semplicemente mostrano chi sono: poesia e quella grazia in cui vivono.
Esattamente come le registe, mi auguro possiate trovare il modo di farvi quel dono anche voi lettori, andando a vederlo. “In stato di grazia”.
Veronica




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