Pinocchio in equilibrio precario tra il “tutto” e il “troppo”

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Prima o poi ogni regista si trova ad avere a che fare con un testo letterario monumentale, che diventa per lui / lei un ideale contenitore di un ipotetico “tutto”, un “già scritto” all’interno del quale andare a ricercare, con forzature più o meno evidenti, tutti i significati e i significanti del proprio alfabeto interiore.

Che si tratti di Alice nel paese delle meraviglie oppure di Moby Dick, della Divina Commedia o del Don Chisciotte, poco importa. Di fronte a operazioni di questo tipo non è tanto la trama, conosciuta più o meno da tutti, a contare, quanto l’indagine estetica, linguistica e contenutistica che proviene dalla trivellazione dell’opera, scandagliata in ogni suo sottotesto e in ogni suo sottostrato, fino a ridurla in frammenti così piccoli da rischiare di non riuscire più a rimetterli insieme.

L’impressione è che Antonio Latella abbia trovato in Pinocchio, appena visto al Piccolo di Milano, il pozzo nero dentro al quale svuotare il suo “tutto”. Un “tutto” che a tratti ci è sembrato un po’ “troppo”. Condensare nelle due ore e mezza dello spettacolo l’intera storia del burattino, la sua rielaborazione intellettuale, digressioni filosofiche sul senso dell’esistenza e sulla morte, inoltrandosi contemporaneamente sui terreni scomodi della pedofilia, della violenza, dei rapporti famigliari visti come fonte di ogni male, adagiando tutto sul tappeto dell’autobiografia teatrale, senza trascurare di creare continui punti di contatto con i nostri padri letterari e di modificare frequentemente codice comunicativo, transitando indifferentemente dalla commedia dell’arte al naturalismo, dall’introversione avanguardistica al metateatro, condensare tutto questo e qualche altra decina di argomenti in un unico spettacolo rischia di risultare un po’ indigesto.

E’ un equilibrio precarissimo, quello su cui si mantiene Latella, che riesce però nel miracolo di rimanere, chissà come, sempre al di sopra di quel filo sospeso. Lo stesso equilibrio precario che tiene insieme ogni grande storia d’amore, in costante oscillazione tra il senso del volo e l’orlo del precipizio. E quella tra Latella e Collodi è una grande storia d’amore, in cui la cura dell’altro e il tradimento sono fattori contraddittori eppure complementari. Nella (lunghissima) prima parte, il rispetto per la storia del burattino è quasi snervante e di conseguenza è ancora più sorprendente il tradimento che si compie nel secondo atto, aperto da una magistrale scena dall’oltretomba, una delle migliori atmosfere di morte che si siano mai viste su un palcoscenico. Ciò che in Collodi ha come fine ultimo la vita, o la rinascita, qui vira tutto, e costantemente, verso un destino di morte, talmente inquietante da diventare quasi palpabile. Piovono ancora più insistenti i trucioli di legno, segnale di smembramento di un’opera e dell’anima, andando a riempire la scena dominata da un gigantesco tronco che è al contempo naso e fallo, menzogna e messa a nudo. Il testo viene piegato verso significati e personalismi che è davvero difficile riconoscere nell’opera originale e questo, naturalmente, spinge tutti noi verso un più attento ascolto e, dopo qualche mugugno e il consueto dimezzamento del numero di spettatori tra un atto e l’altro (ormai Latella è abituato), i superstiti, con il loro bagaglio di attenzione potenziata, possono godersi l’impatto devastante di immagini di rara potenza visiva, abitate da un cast molto più che notevole, su cui domina un Massimiliano Speziani (Geppetto) baciato dalla Grazia e da tutti gli dei del teatro, mentre snocciola ogni singolo vocabolo che si può estrarre da un’enciclopedia della recitazione.

Il senso dell’indifferenza non è un sentimento che può appartenere a chi assiste ad uno spettacolo di Latella. In questo come in tutti i precedenti, ci si può annoiare, ci si può incantare, si può bestemmiare, ci si può sentire sottoposti a tortura, si può grattare il velluto delle poltrone fino a strapparlo per l’irritazione o per l’orrore, ma qualcosa si porta a casa, ed è un tumulto emotivo che genera discussioni infinite e che ti fa ricordare e parlare dello spettacolo anche a distanza di settimane. E questa capacità appartiene solo ai grandi.

Certo, non è un teatro di dialogo o di coinvolgimento, quello di Latella. Almeno non nel senso comune delle parole “dialogo” e “coinvolgimento”. E’ invece uno stimolo intellettuale continuo, spesso autoreferenziale, è vero, ma talmente insistente da arrivare a sfondare la diga del raziocinio per insinuarsi (forse contro le stesse intenzioni del regista) dentro il territorio dell’emozione (sempre che ci si senta pronti a dissociarsi anche dal senso comune della parola “emozione”). Si va a casa sentendosi contemporaneamente svuotati e riempiti, in continua contraddizione anche con noi stessi, con la voglia di tornare in teatro e urlargli “E’ finita!” e poi abbracciarlo e dirgli “Ti amo”. Fedeli e traditori, come in una grande storia d’amore.

Massimiliano Coralli

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