“Ottantanove”: intervista a Frosini/Timpano

ottantanove
foto Ilaria Scarpa

La compagnia Frosini/Timpano nasce nel 2008 dall’incontro tra Elvira Frosini e Daniele Timpano, due autori, registi e attori tra i più talentuosi della scena contemporanea italiana.

I loro lavori sono stati rappresentati nei più importanti teatri, festival e contesti performativi in Italia e all’estero.

Il primo lavoro firmato insieme è Sì l’ammore no (2009), invece gli spettacoli Dux in scatola, Risorgimento Pop e Aldo morto sono stati tradotti e presentati a Parigi nell’ambito del progetto “Face à Face” al Theatre de la Ville (2011) e al Theatre de la Colline (2015). Nell’autunno 2012 partecipano al progetto Perdutamente durante il quale hanno iniziato a lavorare sul nuovo progetto Zombitudine, uno spettacolo sul collasso sociale e culturale contemporaneo. Acqua di colonia (2015) un interessante spettacolo sul rimosso del colonialismo italiano e l’immaginario italiano e occidentale sull’Africa. Nel 2018 realizzano un nuovo spettacolo su drammaturgia di un altro autore contemporaneo francese, David Lescot: Gli Sposi. romanian tragedy.

Fino all’ultima fatica targata 2019, Ottantanove che doveva debuttare nell’autunno del 2020, ma a causa delle restrizioni sanitarie, ha debuttato nel 2021.

Giovedì 10 e venerdì 11 febbraio 2022 all’accoppiata (anche se per la prima volta saranno in tre in scena) Frosini/Timpano arrivano a Sarzana nella splendida cornice del Teatro degli Impavidi.

Per saperne di più ho contattato Elvira e Daniele e ho chiesto loro…

Con Ottantanove partite dalla Rivoluzione francese per raccontare la realtà di oggi?

Siamo cittadini della realtà di oggi che fanno spettacoli dal vivo su chi è in platea oggi, è inevitabile che da qualunque punto si parta si arrivi a parlare del presente. Partiamo dalla Rivoluzione Francese del 1789, sì, la evochiamo come uno spettro inquieto ucciso male che si aggira ancora per il mondo, un mitologema ormai appassito, banalizzato e messo all’angolo, come la Democrazia, che ci appare sempre più svuotata, sbiadita come le nostre speranze e come le tre grandi bandiere che incombono sulla nostra scena vuota, unica scenografia dello spettacolo.

Partendo dal 1789, tenendo fermo lo sguardo sul presente, attraversiamo anche un secondo Ottantanove, quello del Novecento, perché tra 1789 e 1989 vediamo un rapporto di apertura e chiusura di una fase, si chiude la modernità e si spalanca questa postmodernità in cui viviamo al ristagno, come carne in scatola in conserva: il secondo Ottantanove è l’inizio simbolico della nostra tragedia personale, quella di persone destinate a vivere, invecchiare e morire con un unico orizzonte, quello del liberismo e delle ciance postmoderne sulla fine della storia, che poi non è finita per niente ma questa è un’altra brutta storia (anche se in fondo anche questo è uno dei temi di fondo del lavoro).

Cosa significherebbe oggi fare una rivoluzione?

Tutto quello su cui abbiamo parlato a vanvera durante la Pandemia, per esempio, di cui non è stato fatto nulla. Tutto ciò che, a quanto pare, non si può più fare. Al momento ci pare che – al massimo – si possa inventare un claim pubblicitario che metta a valore l’immagine “iconica” del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo per la pubblicità di un assorbente o il quadro famoso di Delacroix con la Marianna che guida la rivoluzione per un simpatico Meme. L’arte poi (ed anche questo è uno dei temi di “Ottantanove“) nel suscitare un cambiamento ci pare ormai abbastanza impotente: un mese prima del primo lockdown ci siamo – noi stessi – commossi e sdegnati per il film bellissimo di Ken Loach sui lavoratori stile Amazon ma un mese dopo – noi stessi – abbiamo fatto l’iscrizione ad Amazon Prime ed abbiamo cominciato a comprare quasi solo su internet come tutti quanti gli altri e pazienza le condizioni dei lavoratori. Pensiamo ci siano anche speranze di qualche miglioria, se non di un cambiamento, ma di queste ceneri accese sotto braci spente non sappiamo più che fare. Si vive e muore in un acquario ed ora che l’abbiamo detto ci viene pure un po’ da piangere.

Con Ottantanove la vostra personale rivoluzione è che per la prima volta sarete in scena in tre sentivate la necessità o l’esigenza di provare nuovi stimoli?

Sentivamo un po’ il bisogno di passare da Eschilo a Sofocle, introducendo finalmente un terzo attore, ed abbiamo pensato a Marco Cavalcoli. Conosciamo il suo lavoro da sempre. Pur avendo più o meno la nostra età è in qualche modo un esponente della generazione teatrale appena precedente la nostra, quella anni ’90. Insomma, quando facevamo i nostri primi spettacoli ci capitava di vedere i lavori già maturi di Fanny & Alexander con Cavalcoli.

Ci è sempre piaciuta moltissimo la sua leggerezza, la sua precisione, la sua versatilità, ed anche, in fondo, la sua aria da eterno minorenne, che è un po’ come ci sentiamo anche noi. Volevamo assolutamente lavorare con un terzo attore, per spezzare la dinamica a due, per lavorare su ritmi e spazio in maniera parzialmente differente, e per dare anche un segno di apertura della nostra compagnia. Lavorare in tre è già un’indicazione di voler lavorare in 7-8 o in 33 o 54. Ci piacciono i lavori asciutti e densi, con poche cose e figure in scena, ma collaborare con altre persone, e far lavorare persone che stimiamo, è una cosa che faremmo davvero volentieri. In futuro vedremo, ma di sicuro questa volta la nostra scelta è stata azzeccatissima: Marco si è messo subito a nostra disposizione con entusiasmo ed intelligenza. La nostra maggiore soddisfazione è quella di essere riusciti ad essere un vero terzetto affiatato in scena, tre figure sullo stesso piano, tutte essenziali al lavoro, con un linguaggio comune ma anche con tre cifre estremamente riconoscibili.

Chi sono i personaggi che portate in scena con Ottantanove?

Uno, nessuno e centomila, praticamente.

Ci sono moltissime figure e questioni, incarnate in prima persona, da figure che non siamo noi (nel copione sono indicate come A, B, C) ma che sono a fianco a noi, composte anche di elementi autobiografici e caratteristiche personali, ma ci sono anche molti materiali e figurine differenti, dai quali entrare ed uscire continuamente: da Vittorio Alfieri e Victor Hugo ad un ipotetico neo-vandeano reazionario rivoluzionario populista confuso arrabbiato e complottista dei nostri giorni. Ad ogni modo, non c’è una vera storia, non ci sono veri e propri personaggi.

Mentre per chi non vi conoscesse ancora, Daniele ti va di presentarci Elvira?

Elvira è un’attrice e autrice molto brava e atipica che è nata come danzatrice, e si vede moltissimo nella precisione e rigore, ma anche levità del suo lavoro. Ha una bellissima voce. È piccolina, minuta, tutta nervi, fragile ma piena di energia invincibile, almeno in scena. È un piacere anche scrivere con lei, ed è un piccolo miracolo che si sia trovato un equilibrio. È molto autoironica, anche comica, in quello che fa, ma ha delle corde melanconiche e disperate che colpiscono. Se ha un difetto, è che è troppo intelligente ed ha troppa fiducia nel QI delle persone che incontra. Non credo riesca sempre a capire quanto a volte siano stupide, misere, limitate, ottuse alcune persone che incontriamo…

Elvira chi è Daniele?

Daniele è un attore ed autore bravo e davvero geniale.

Ha una presenza scenica unica e inimitabile, una partecipazione di pensiero e corpo in scena che si unisce al pensiero autoriale in un modo davvero personale. È colto e ironico, sempre pronto a capovolgere le cose e le situazioni. Scrivere, fare regia e andare in scena insieme è per noi una sfida ed un intreccio miracoloso. Inoltre è una persona meravigliosa ed è bellissimo averlo accanto. Certo è anche una persona complicata, a volte insopportabile, spesso fa il cretino, è compulsivo in tutti gli aspetti della vita, ma alla fine mi sono abituata a questo difficile equilibrio.

Il teatro se prima era in crisi oggi è messo in ginocchio, cosa vi sentireste di dire ai lettori per invogliarli a venire nella splendida cornice del Teatro degli Impavidi a Sarzana?

Senza falsa modestia ma con un pizzichino di pudore diremmo che il nostro lavoro in generale, ed Ottantanove in particolare, siano proprio il quadro ideale da ospitare in una simile, bellissima cornice. Lo spettacolo parla di cose che riguardano tutti noi, mette insieme tanti linguaggi differenti, cerca di attivare sinapsi sotto-utilizzate nelle teste degli spettatori, è senz’altro un lavoro colto, perché è pieno di questioni politiche, storiche, civili, ma è anche un lavoro molto divertito e apertamente comico, tutt’altro che freddo e cerebrale. Ci sono le parole nell’italiano desueto ed iperletterario di Vittorio Alfieri ed il racconto dello sceneggiato televisivo “I giacobini” di Federico Zardi ma ci sono anche ricordi personali, le nostre vite che tentano di entrare in risonanza con lo spettatore, c’è uno straziante calore di cui siamo un po’ fieri. E poi si parla anche di Sarzana: una delle figure presenti nel lavoro ha a che fare proprio con questa città ed è uno dei motivi per cui siamo così contenti di portare Ottantanove qui agli Impavidi.

Prima di salutarvi, cosa vorreste che si portassero a casa gli amici di Sarzana dopo aver visto Ottantanove?

Un po’ di diavolina per dar fuoco alle proprie bianche ceneri.

OTTANTANOVE

drammaturgia e regia Elvira Frosini e Daniele Timpano
collaborazione artistica David Lescot
con Marco Cavalcoli, Elvira Frosini, Daniele Timpano

sinossi

1789. La Rivoluzione Francese tocca e cambia tutta l’Europa fondando il mondo in cui viviamo. Ma cosa ne rimane 230 anni dopo? Elvira Frosini e Daniele Timpano, affiancati per la prima volta in scena da Marco Cavalcoli, con la loro scrittura affilata e spietatamente ironica, pronti ancora una volta a scandagliare e a smascherare l’apparato culturale occidentale con tutti i suoi simboli e le sue retoriche fino ad arrivare all’osso dei suoi miti fondativi. Passato e presente, storia francese e storia italiana, modernità e postmodernità si sovrappongono sul palco in un percorso volto a mettere in crisi le nostre vite “democratiche” e l’immaginario legato al concetto di rivoluzione. Una rivoluzione è ancora possibile? E in che modo? Oppure si tratta di una cosa vecchia, novecentesca, conclusasi in un altro tempo e in un’altra Storia?

Ottantanove non vuole raccontare una storia, o la Storia, ma immergersi nei materiali culturali che hanno prodotto quel mito fondativo e che questo ha prodotto a sua volta. L’attuale crisi della Democrazia vista in rapporto con il 1989, la fase che apre un’epoca, oggi che il concetto stesso di rivoluzione sembra aver perso concretezza.

Buona serata, Fuori Città, a teatro!

TiTo

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