
La parola sente sempre un giusto pudore quando è chiamata a raccogliere, nel breve spazio di un articolo, la complessità di un’esperienza umana, il tentativo di raccontare, superando lo scacco pirandelliano, una coscienza dal di dentro, lo scorrere di anni, ed, insieme ad essi, di percezioni, pensieri, emozioni che hanno il carattere dell’irriducibilità, la freschezza di un’acqua in cui si è bagnata, per tanti anni, la stessa anima. Il sentiero è ancora più in salita ed impervio nel momento in cui questo esercizio chiama in causa un artista del calibro di Roberto Brivio, ma è necessario, doveroso, compiere questo sforzo.
Se si immagina l’incarnazione della passione teatrale, della passione per lo spettacolo ricordata da Strehler e mutuata da Jouvet, non si può non pensare a lui. La passione la si può verificare, determinare, e certificare retrospettivamente, è la nottola, o nel suo caso si dovrebbe dire “Gufo”, di Hegel che torna a Minerva sul far della sera, è la constatazione di una vita dedicata completamente all’arte. I Gufi, di cui faceva parte, traevano la loro forza dal cabaret, quello vero, autentico, in grado di scuotere ben bene il mondo sonnecchiante delle certezze e dei luoghi comuni, mimi dell’essenza stessa della comicità, acrobati del calembour, del gioco linguistico, del verso musicale in grado di parodiare aristofanesticamente il cattivo costume, di guardare alle cose di sbieco, da una punto di vista altro, dalla prospettiva del paradosso, straniando ogni gesto, ogni parola, per far brechtianamente ragionare lo spettatore.
Brivio è stato un vero e proprio perpetuum mobile del teatro, ha fondato e gestito diversi teatri, tra i quali il Teatro del Corso, il Refettorio, il Briviotenda, il Teatro Ariberto ed il Teatro La scala della Vita, non c’è un attimo della sua vita, il quale fatalmente comprendeva la sua biografia tutta, che non sia stato illuminato dalla luce della creatività, in cui non ci sia stato il passaggio della corrente elettrica del suo estro, della sua determinata e ferma volontà di cogliere le idee appena mature dal mondo iperuranico, ed addentarle con il suo instancabile appetito della creazione. E’ stato scrittore, insegnante, cantante, attore, fine dicitore, intrattenitore, comico, regista, interprete artico, bravo divulgatore del dialetto, direttore artistico, non si è mai arrestato il battere freneticamente e con passione sulla tastiera della produzione artistica.
Chi ha avuto la fortuna di vederlo, ed ascoltarlo in scena, sapeva che da subito avrebbe sentito il gusto inconfondibile della zampata di Brivio, di quelle parole che cominciavano, come le sfere di un giocoliere, ad essere lanciate nell’aria, a permanere in essa per un tempo stupefacente, per poi essere rilanciate, aggiungendone delle altre. Sentiva il pubblico d’istinto e lo mesmerizzava, lo teneva tutto lì, nel suo speciale “a me gli occhi, please”, i suo fonemi, ogni volta, erano, una pioggia sottile ed intensa, una pioggia di marzo che ti bagnava piacevolmente, dava l’impressione che in unico gigantesca fiato, che si arricchiva della fine arte recitativa dei mille fiati in prestito, dei fiati rubati, di riuscire a racchiudere un ideale monologo del beckettiano Lucky, in grado di scorrerti addosso come acqua fresca, e di lasciarti sulla pelle dell’anima una bella sensazione, che persisteva anche molto dopo che era terminata la sua performance in palcoscenico.
Sentirlo parlare fuori scena equivaleva a sentire la stessa voglia del bambino di divorare tutto il mondo anche solo pronunciandolo, di tradurre freneticamente nelle parole la torrenzialità delle immagini, delle intuizioni e delle domande che via via scorrono di dentro. Ha avuto un grande talento artistico, ma anche, per citare Brel, il talento di invecchiare senza diventare adulto, di tradurre in realtà la capacità, evocata da Nietzsche, di mettere la stessa serietà nel gioco che i bambini riescono ad utilizzare. Una regia, un monologo, qualunque occasione di fare spettacolo era quella in cui potersi investire sempre, senza risparmiarsi. Appartiene, a buon diritto, a quella genia di interpreti che ha sempre avuto come stella polare, per orientarsi, l’imperativo della generosità, del donarsi completamente, senza remore o pudori.
L’essenza di Brivio è questa, la brività, la brevità di un monologo che diventa l’urgenza del raccontare, del dire, del fare e dell’agire, che si allarga nei polmoni e nel diaframma di una passione che, ogni volta, fa di pochi istanti un mondo ed una, cento, mille vite. Fare teatro per lui è sempre stato un atto naturale, al pari di respirare. Asimov ha affermato che se il dottore gli avesse comunicato che gli sarebbero rimasti pochi istanti di vita, lui avrebbe reagito mettendosi semplicemente a scrivere a macchina più velocemente, e Brivio ha idealmente tenuto in tasca questa massima, fino all’ultimo, ha sempre tenuto alta la velocità del proprio spirito creativo, e, soprattutto, ha sempre contagiato con il suo spirito, con il fuoco ardente del suo inarrestabile fare artistico, chiunque avesse occasione di relazionarsi con lui, sia che fosse amico, collega o semplice spettatore. Gli occhi sono ancora idealmente qui, illuminati dalla luce di chi ha ancora la capacità di stupirsi del mondo di fuori e di quello di dentro, e di farne sempre un nuovo progetto artistico.
Danilo Caravà
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