Nella cornice di un quadro di Hopper, le solitudini di una coppia sono disperatamente autentiche, spietata fenomenologia di coscienze che insultano lo specchio costituito dall’altro. Quanto Lacan c’è, in queste scene; un inconscio che soffre, e, spaccandosi il cuore con il punteruolo della virgoletta, s’offre alla platea nella forma di un gioco al massacro, dove impera il sempiterno dio della carneficina di reziana memoria. Si compie, in questo lavoro teatrale, una sorta di miracolo scenico, di sublimazione del genere: il dramma borghese si apre a un invincibile sorriso, anzi, a una catartica risata. C’è un daimon brechtiano nella vicenda, punteggiata da didascalie, in grado di sciogliere lo spettatore dal vincolo aristotelico, rendendolo libero osservatore dell’evolversi della malattia metastatica di questo matrimonio. Con una generosa iniezione di anestetico cardiaco, preso dritto dritto dallo scaffale dell’umorismo di Bergson, la platea può osservare questa setticemia di un amore, con un riso più tagliente del rasoio di Occam. Dei servi di scena, implacabili quanto demoni dostoevskjiani, assecondano, organizzano un progressivo e irresistibile falling down di un uomo e di una donna, che respirano male nell’aria di paraffina spirituale della drammaturgia scandinava, scrollandosi di dosso Strindberg e Ibsen con la nevrotica compostezza del marito che si scombina i capelli, maniacalmente sistemati della moglie.
Decisamente , scena dopo scena, si svelano le immagini di una TAC total body di una vita di coppia, in cui non si sa sotto quali tappeti si potrà, ancora, nascondere la polvere. Ma, oltre alla scomposizione brechtiana, alla terzopesonalizzazione dei gesti con cui i protagonisti si preparano ai quadri della vicenda, si ritrova una caratteristica in grado di rappresentare un ricambio di aria pulita, nella stanza delle rappresentazioni teatrali: la verosimiglianza, la naturalità di ciò che accade, senza un filo di grasso retorico. Si consoli Auden, perché un po’ di verità sull’amore borghese la si può vedere, in questo spettacolo, dove i pensieri, le intenzioni devianti, a poco a poco, colonizzano le azioni sceniche, prendendovi il sopravvento. Non c’è presenza, fortunatamente, di alcun desiderio di assecondare il fascino discreto della borghesia; né alcuna tentazione di rendere contemporanea la storia. Si capitalizza tutta la vicenda nella battaglia, via via più cruenta, di due esseri che si contendono uno spazio vitale, prima di tutto interiore. Il gioco, vecchio come il mondo, è quello dell’odi et amo: una forza, al contempo, attrattiva e repulsiva, che vive eternamente in un paradosso, in un disequilibrio in cui il funambolo è già caduto da tempo, non ha toccato terra, e, forse, mai la toccherà. Il testo di Bergman ha la precisione dell’entomologo, l’accuratezza di autopsia di un amore che prevede che, sotto il naso della platea, si metta il mentolo dell’ironia, per non sentire l’odore, forte, dei corpi inerti. Il regista Vogel ha il merito di aver regalato a tutta la storia una meravigliosa fluidità; le scene scorrono veloci, attraverso la sospensione di un treno magnetico.
Non si riscontra alcun attrito frenante, e la mente non ha tempo per distrarsi. Viene il sospetto che le risate siano lo svelamento della maschera, in grado di tenere a bada la vicinanza, di ciò che viene raccontato, alla vita al di là della quarta parete. L’altra, potente, intuizione registica riguarda certi dialoghi forti, osmotici dei protagonisti, che diventano più veri ed efficaci quando, tra di loro, si apre un ostacolo, un diaframma, un’incolmabile distanza. Costretti in un gioco delle parti tragicomico, nei lazzi aggiornati di una Casa Vianello in cui sono permesse armi di distruzione/distrazione di massa, si fanno a brandelli, si spellano l’anima con il coltello delle parole; ma la pelliccia che ne ricavano non basta loro a scaldare il cuore. Fausto Cabra è un Clark Kent in perenne contatto con la sua kryptonite: mostra la ferita dell’eterno bambino spillandola come un giocatore di poker, si piega, si curva, si abbatte, offrendo alla platea tutti, ma proprio tutti, i suoi sussurri e le sue grida. Umano, troppo umano per costruire un’epica della vita domestica, ha più affinità con le struggenti piccole cose gozzaniane. Sara Lazzaro è, letteralmente, posseduta da una legione di demoni delle psicologie femminili; è un vulcano pronto a esplodere, ed è terribilmente fascinosa l’eruzione dei suoi sentimenti forti, la lava etnica di tutti suoi oscuri oggetti del desiderio. Guizza dalla psicanalizzabilità del lettino di Freud, e lascia senza fiato, doppiandolo, anche il più convinto personaggio pirandelliano. Si costruisce e si demolisce alla stessa velocità con cui si cambia d’abito. Generosa, fino all’ultimo fonema, al pari del suo partner, riesce a far sentire tutto l’odore dell’anima, che non ha niente da invidiare a quello della terra. Forse solo Eraclito, con la necessità reciproca degli opposti, può trovare un senso a questa eterna guerra dei Roses, che si esprime, idealmente, fino ai confini del mondo, e di ogni drammaturgia.
Danilo Caravà
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