Se le passioni moderate, come ci ricorda Diderot, producono uomini comuni, quelle infuocate ci restituiscono “i santi sociali” ricordati da questa lettura scenica (anche se la definizione non rende piena giustizia al respiro più vasto del lavoro teatrale), progettata in sinergia dall’attrice Laura Curino, interprete unica, e la compagnia Anagor e vista allo Spazio Teatro No’hma. Al di fuori del perimetro della santità, formalizzata dal diritto canonico, viene raccontata allo spettatore quella comunitaria, che vive e dà testimonianza di sé nel tessuto sociale.
Torino è l’ideale centro di gravità del racconto di personalità bigger than life, luogo dove, uno dopo l’altro, sfilano i dagherrotipi verbali di personaggi che fanno della vocazione religiosa un imperativo categorico di azione sociale, e che hanno il nome di Giuseppe Cafasso, Giuseppe Cottolengo, Giulia di Barolo, Leonardo Murialdo, Francesco Faà.
La scenografia più che di oggetti è animata da luci che si fanno cosa salda, materia scenica che veste lo spazio della protagonista. Bastano un tavolo, alcuni leggii ed una scala per trovare una dimensione occamiana del racconto, che invita lo spettatore a capitalizzare la sua attenzione sulla recitazione. La narrazione, sapientemente sfumata di leggerezza ed intelligente ironia, riesce a portare su di sé, attraverso un riuscito lavoro di decoupage drammaturgico, e la vis interpretativa dell’attrice, la sovraimpressione della tranche de vie innervata dall’emozione, e dall’immedesimazione.
Brecht e Stanislvaskij, il teatro epico ed il metodo, trovano una possibile sintesi hegeliana nell’interpretazione della Curino, bagnata letteralmente dall’impegno e dal coinvolgimento. Il suo strumento fonetico ha l’ideale voce di un violoncello piacevolmente vissuto, in cui la corda dell’archetto gratta note piene, possenti. Fatalmente la passione raccontata finisce con il sovrapporsi con quella dell’attrice, dando valore aggiunto al progetto scenico. L’interprete passa con agilità di personaggio in personaggio, arricchendo virtualmente la scena con altre figure di contorno, che danno pienezza al quadro della narrazione.
Particolarmente efficace risulta essere la scena in cui, arrampicata sulla scala laterale di un patibolo, interpretando Giuseppe Capasso, si prodiga allo stremo per un condannato cercando uno struggente abbraccio fatto di parole, nonché quella in cui interpreta un don Bosco agée, segnato dalla vita e dagli anni, e reinventa il significante leggio nel significato di un bastone della vecchiaia. Le parole della genesi scorrono per tutto lo spettacolo, proiettate sul fondo con le immagini della quotidianità torinese, intuizione di un presente storico che somma in sé il momento scenico, il racconto del passato, e l’oggi delle realtà di aiuto costruite da Cottolengo, don Bosco e dagli altri santi sociali.
Danilo Caravà
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