Pizzeria Kamikaze: la trasgressiva e multiforme vita dei suicidi
Una catabasi nella città dei suicidi, senza alcun rigidismo dantesco ma come se le persone che si son tolte la vita, per una ora e dieci tristallegra e riflessiva, si prendessero il diritto di dire la loro, esclusi, troppo in fretta, dalla società della vita.
Benvenuti in Pizzeria Kamikaze, libero adattamento di Francesco Brandi, protagonista sul palco con Antonio Stoccuto e Giulia Pica, per la regia di Mario De Masi, del testo dello scrittore israeliano Etgar Keret, uscito nel 2000. Nove racconti, di cui il più lungo, dà il titolo a questa piece.
Haim, un ragazzo ebreo, si ritrova nella città buia, che accomuna tutti i suicidi, due giorni dopo essersi tolto la vita e si ritrova a lavorare nella pizzeria Kamikaze, lui che in vita aveva sempre lavorato ed avuto a che fare con i tubi. E’ morto per amore, dopo che la sua fidanzata Desideria, lo aveva lasciato, nel mentre di un suo attacco d’asma.
Mentre espone le sue fatiche in vita ed in questa nuova dimensione, incontra Ari, un eccentrico ragazzo arabo.
Iniziano così storie di vita presente, laddove, apparentemente, sembrerebbe esserci morte. I due non solo diventano amici ma girano con la Prinz di Ari, che non ha i fari. Ed anche nel sottoscala dei suicidi, le persone continuano ad avere i loro chiodi fissi: Haim si strugge per la sua Desideria, Ari continua a proporre infinite ragazze da approcciare. Nessun bar Mario alla Ligabue, ma il b-ara, il pub più in voga da quelle parti, dove, la maggior parte delle ragazze, però, sono vegane e mangiano cibi biologici. Bravi Brandi e De Masi, a mettere sul palco la dimensione dell’al di là, riempendola di parole, fatti e situazioni proprie dell’al di qua. Concretezza che si scorge per esempio quando i due ragazzi, mangiano una cassa di gelato in compagnia di Li, una ragazza finita in quel luogo per overdose, ma ancora innamorata delle cose della vita, come andare a prendere a scuola la sua nipotina. Un miscuglio, riuscito ed equilibrato, tra frammenti truculenti e particelle che contengono ancora dei desideri. Vagano in questa città scura, dove sussiste ancora il tempo ma non ci sono né le stelle né il mare, appannaggio del regno dei vivi.
“Cerca di evadere in modo leggero, non essere sempre pesante”, suggerisce lo scanzonato Ari all’afflitto Haim.
Alla fine, però a Li, anche dopo aver letto le poesie di Haim, che nessuno voleva leggere, si accende una specie di febbre di vita, che la porta a raccontare cosa le manca, come la disperazione, che se affrontata, rivela, è tutta un’altra cosa, come la banalità. Sente che la vita la richiama. Sente e vede con Haim il riverbero del mare, realtà in quella stramba città, proibita. La sua causa, infine, è ritrattata e, solo lei, può riuscire a riveder le stelle.
Uno spettacolo che non annoia ma tiene desto lo spettatore, dove l’elemento mortifero, risulta ben incastonato tra la componente surreale ed un quid di tenacemente onirico.
“I sepolcri, inutili ai morti, giovano ai vivi”. Sentenziava Foscolo. Evidentemente, anche questo baldanzoso microcosmo di suicidi, giova ai vivi, a chi, dopo aver assistito a Pizzeria Kamikaze, si sente nutrito da un menù inconsueto, profondo e che non si trova certo in tutte le pizzerie.
Luca Savarese
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