Valentina Picello è una di quelle attrici che vibrano; vibra, letteralmente, come un diapason, come una foglia che resiste impavida al vento del testo, opponendo il vento fermo della propria anima. E’ una Pizia, una sacerdotessa di Apollo, una Cassandra scossa dal traumatico contatto col sacro con l’assoluto. Rappresenta il risultato del fatale incontro tra la carne e la poesia. Riesce ad aprire squarci di verità, di intuizione, su questi 5 testi di Tennessee Williams, ovvero la struggente, implacabile nostalgia per le antiche deità dell’antica tragedia. Il dramma che diventa inesorabilmente melodramma, la hybris che non ha più residenza a Tebe, a Corinto, o nella casa degli Atridi, ma in uno squallido appartamento alla periferia dell’impero americano, nella suburra in cui fanno fatica a crescere anche i fiori del male baudelairiani. Il metallo, il cemento, l’aria pesante, tagliata male, della provincia, sono piombo puro, depositato sulle anime che sussurrano, gridano, si ribellano al destino terrestre, e continuano a guardare il cielo, nella speranza dell’altrove.
Poi c’è quella voce femminile, e che voce; una voce che usa la laringe di tutto il corpo, un unico continuo assolo di contrabbasso jazz, una tosse metafisica in ogni fonema, dovuta a certe piume di male di vivere che, irritando l’ostrica, ne stimolano la produzione di madreperla. Nel primo atto unico, una ragazzina cammina in bilico tra i binari, in un luogo mentale, freudiano, fatto di ricordi che si fanno cosa salda nella forma di objet trouvé; fotografie, libri, collane, cavalli a dondolo, pistole diventano testimonianze museali di oggetti in cerca d’autore, impregnati della vita che evocano. Parla con un uomo, questa giovane funambola, nel suo equilibrio sopra la follia; è quello che sarebbero un’Antigone, un’Elettra, se fossero scaraventate senza pietà nel delirante sogno americano, nel pieno del ‘900, dove chi vuole l’assoluto, e non accetta compromessi, viene seppellita viva nei pochi metri quadri della propria esistenza, e, se è fortunata, può contemplare un cielo bianco come il latte, come un foglio di carta su cui riscrivere la propria storia.
Tennessee Williams è Cechov che impara la parlata southern di un’America in perenne debito di ossigeno; ma, a parlare, è sempre quel capitale di vita non vissuta, calpestata, stropicciata, costretta ad immaginare la libertà di un viaggio on the road, camminando fino a quando i piedi non faranno male. Francesco Sferrazza Papa è il partner ideale, quello che, se gli alzi la palla, ti fa la schiacciata giusta, imprendibile, suonando se stesso su tutte le tonalità, in maggiore ed in minore; col suo aquilone fatto, prima di tutto, di un fiato di voce che cammina, convinto, sui marciapiedi notturni delle emozioni e della coscienza. Nel secondo atto unico, una coppia borghese vive il proprio momento di verità sotto l’effetto dionisiaco dell’alcool. Qui, la notte è tutt’altro che tenera; è puttana, traditrice, ti dà certi schiaffi che ti rovesciano la faccia. Le scene del matrimonio bergmaniano sono a latitudini molto più calde, e la cenere sotto il tappeto contiene ancora braci che scottano, quando arrivano alle orecchie. Nel terzo, è una coppia della working class a ricordarci che la vita non è un film di Capra, ed è l’uomo a cercare di diventare piuma, in grado di volare via al primo refolo di vento. Tuttavia, il cavallo di Troia è diventato un cavallo a dondolo, e il suo è un falso movimento, solo espressione della volontà di ninnarsi, e addormentarsi ancor più nell’intollerante esistenza. Nel quarto, l’eterna coppia di madre e figlio si scontra e si confronta, e il bigottismo religioso è medicina spirituale troppo amara, per un ragazzo che vive la sua stagione all’inferno, avendo potuto solamente vedere il suo Verlaine in fotografia. Nell’ultimo, il cigno intona il suo canto più alto, e l’uomo e la donna si fanno spietatamente universali.
Circondati dalle macerie del mondo, trasformano il loro parlare in un abbraccio disperato, selvaggio; uno di quelli che ti fanno male, ma che, insieme, ti danno la sensazione che si ci possa strizzare reciprocamente la carne, affinché venga fuori, come un succo, l’anima. E quella camminata perimetrale dell’attrice, quel suo farsi voce, vento di parole, quel suo parlare come la pioggia, diventano necessaria, attesissima catarsi. A metà strada tra una Sonja di Zio Vanja e un personaggio uscito, ancora sgocciolante di colore, da un quadro di Hopper, Valentina Picello fraseggia con la sua voce come una flautista, e cava dal suo strumento certe note sospese; molto più che parole, sono la fusione alchemica dello spirito del corpo, e del cuore, e se ne stanno lì, tra le pareti e la scena, per lasciare agli spettatori soltanto una voglia di applausi. Menzione speciale va tributata al regista Piazza, per aver fatto risuonare al meglio queste due (o dieci) anime.
Danilo Caravà
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