Recensione: “Marjorie Prime”

Marjorie Prime
foto Noemi Ardesi

Questo è uno di quegli spettacoli che ti impregnano l’anima con l’odore delle loro emozioni, assomiglia a una di quelle luci il cui alone persiste nella retina, anche dopo che si sono spente, e come faceva il critico Monticelli, non si può fare altro che correre velocemente a casa per tradurre nel linguaggio della scrittura la sensazione donata. La protagonista, Marjorie, è una donna ultraottantenne che ha un Cartesio malato di Alzheimer nella testa, e non può fare altro che inseguire passati, beckettiani giorni felici su una poltrona, che pare donata da Hamm, per giocare l’ultimo game di questo finale di partita.

Come il cavaliere inesistente di Calvino contava i suoi sassi per credersi vivo attraverso la forza deduttiva dell’algebra, così questa donna si aggrappa selvaggiamente alle parole mentre la malattia le divora, pezzo dopo pezzo, ricordo dopo ricordo, il fragile io, foneticamente destinato ad essere piccola cosa, in mezzo ai sussurri ed alle grida. Parla con Prime, la copia digitale ringiovanita del defunto marito, l’ultimo orizzonte degli eventi informatici, l’espressione di un mondo al di là di quello schermo-video che sempre più colonizza le nostre giornate, un mondo a metà strada tra quello iperuranico delle idee, e la nostra fragile, fenomenica realtà condivisa. Ha l’odore sintetico del silicone, pizzica come la punta di uno spillo come l’elettricità statica, e fa la tara all’esistente, lasciando sul piatto solo le parole, si nutre di linguaggio e lo restituisce in forma compiuta. Se il ricordo si deteriora, lo si può cambiare, far vincere l’immaginazione sull’accaduto, far diventare questi ologrammi virtuali gli aedi sorridenti di un mito che diventa in formato digitale, e anche se il buon Omero di Orazio sonnecchia, ci sarà forse un Prime a rendere un po’ più gentile l’ira di un moderno Achille.

Completano il quadro una figlia, un’Elettra a cui il lutto proprio non si addice, che vive l’inevitabile odi et amo catulliano con la madre, ed un genero che si sforza d’essere una morfina umana per stordire il dolore di questi rapporti umani, che si accrescono attraverso quelli virtuali. Se la vita adornianamente non vive, può fare dichiaratamente finta di farlo la pseudo-realtà digitale, e regala un represso urlo munchiano la prospettiva, fotografata dal testo di Jordan Harrison, che l’immortalità, il “per sempre” che non può essere interrotto da alcun metafisico giudizio universale, sia demandato alla virtualità informatica. Se si ha paura che la propria mente svanisca, si può affidare il proprio messaggio ad una progenie digitale, che ha come un’unica, oppiacea, droga sociale il linguaggio, è esso stesso a prendere la parola, senza più la mediazione umana, diventa vero ciò che che viene semplicemente detto, il parlare dei Prime è già di per sé una verità assiomatica, si storicizza immediatamente, non appena viene pronunciata.

Il regista Raphael Tobia Vogel riesce a tradurre efficacemente questa storia in bilico tra il dramma sociale e la fantascienza, in una serie di quadri nitidi, precisi al pari della pittura iperrealista, muove i pezzi di questo gioco con la maestria di un consumato scacchista, e lascia volutamente il Prime visibile nei momenti di attesa, di stand-by, quando respira virtualmente quel nugolo di parole, quel precipitato fonetico delle emozioni umane che si consumano intorno a lui, come se fosse il silenzioso alfiere lasciato inizialmente in disparte, ma pronto a far scattare la trappola dello scacco matto, sempre con il sorriso sulle labbra, una maschera ridente per una macchina imperturbabile, un dio euripideo nella forma di sistema operativo, che scioglierà la vicenda in maniera inaspettata. Ivana Monti, infiamma di luce ecubea i suoi fonemi, li scava, li gratta e li trova, in un ventre materno che ha fame di memoria, e, per soddisfare il proprio sterminato appetito metafisico, si accontenta di rubare quella fragile di un ologramma. Riesce a trovare un’ispirata sintesi hegeliana tra i dolorosi sorrisi e le lacrime che impregnano d’umidità le sue dolenti sillabe. Elena Lietti, la figlia, trova ispirazione nella sua fisicità alta e fragile, come quella di un delicato stelo, ed è seta sottile che fruscia la sua disperatissima vocalità tra gli altri personaggi, cercando di dare al suo dolore la riconoscibilità esistenziale dell’ascolto, ma la sua laringe sa tirar fuori le unghie per mettere il grassetto ai propri pensieri. Pietro Micci il marito, riesce ad esprimere al meglio i vari cromatismi del suo personaggio, passando con agilità dai toni caldi e pacati del raisonneur in grado di fare carezze fonetiche rassicuranti agli altri personaggi, all’uomo che pian piano è divorato dalla sofferenza irrazionale, e intinge nella dionisicità i suoi fraseggi.

Ed infine Francesco Sferrazza Papa, nel ruolo del Prime, trova una misura geometrica alle sue battute, uno specchio razionale dell’altrui umana emozione, diventa la stele di Rosetta per gli altri interpreti, in grado di far decifrare la gestualità e la vocalità di questa presenza virtuale. Viene da domandarsi se, nei momenti di attesa, il Prime possa sognare pecore elettriche come gli androidi del romanzo di Dick, ma forse la risposta è chiusa in quel sorriso enigmatico, monnalisesco, simile a quello di Noodles, nel finale di C’era una volta l’America, con cui guarda la platea prima del buio finale.

Danilo Caravà

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