La parola “frammento” è, secondo la filologia, una “parte di un’opera letteraria pervenutaci mutila”, la cui collocazione non è sempre facile; può essere anche un brano di un’opera concepita disorganicamente e che, per varie ragioni, non ha mai trovato posto in un sistema organico; si riferisce inoltre a qualcosa che è stato rotto. Il frammento può essere anonimo, vittima di disattenzione, abbandonato all’usura del tempo o non compreso. Convivono nell’insieme di significati di questa voce la violenza, l’inspiegabilità, l’incomunicabilità: questi sono i temi e le atmosfere de la “La nipote di Mubarak”.
Un frammento nelle coscienze italiane è infatti la storia di Khaled Said, torturato e ucciso dalla polizia egiziana, spezzato dalla brutalità della dittatura di Mubarak nel 2010. Il suo omicidio e, purtroppo, quello di tanti altri volti sconosciuti, hanno portato alla rivolta egiziana del 2011 contro il regime, in piedi sin dal 1981. A raccontare, per mezzo di un monologo che fa echeggiare più voci, è Francesco, interpretato da Marco Vergoni. “Cosa significa Francesco?” “era un santo che parlava con gli animali”: Francesco però, davanti ad un animale picchiato senza ragione, rimane inerme e impaurito. Il nome del nostro patrono nazionale diventa così il simbolo di un’Italietta spenta, spesso ignara, collusa dall’alleanza con il regime: basta ripensare, banalmente, agli accordi su ENI, o a Berlusconi che chiese a Mubarak consigli su come superare le questioni interne, alla luce dei suoi 30 anni di permanenza alla guida dello stato egiziano. Ma se ne potrebbe parlare a lungo e molto approfonditamente in diversi contesti.
Francesco lavora in radio e il suo programma può solo fare una velata ironia su questioni quali il bunga -bunga, ma senza mai andare nello specifico: si materializza così sul palcoscenico il balbettio inconsistente di una certa fetta del mondo della comunicazione negli anni dell’era berlusconiana, il suo brusio non ben ascrivibile, la nostra confusione davanti a questioni che, per colpa dello Stato, e anche nostra, non ci sono cristalline. Si palesa, più in generale, il problema, tutto italiano, della cecità davanti alle violazioni democratiche che non ci toccano in prima persona. Viene mostrato il contorto rapporto che il nostro rapporto ha avuto e ha con i media, ora rappresentati in gran parte dai social network: siamo sempre più lontani dalla percezione del reale, riduciamo la vita a una didascalia sotto una foto, auguriamo il peggio semplicemente cliccando invio. Siamo troppo presi a curare la nostra fetta di giardino per badare al puzzle d’umanità intorno a noi: l’Egitto è per noi una meta turistica, citata tra un annuncio pubblicitario e l’oroscopo. Lo spettacolo da nuova dignità a una porzione di realtà anonima alle memorie di molti.
I frammenti di vicende riportate nel giornalino di quartiere di Abdul, amico di Francesco, gestore del kebab di zona e ladro di storie, diventano quindi le vere protagoniste del palcoscenico della sala Shakespeare: sono sia il perno della narrazione, che della scenografia. Al centro del palco troviamo infatti la rivista, intorno alla quale gira il corpo Di Marco Vergoni e il racconto che prende forma dalla sua voce. Il cambiamento di accento e del ritmo del movimento fisico sono le chiavi di volta all’interno del monologo per il passaggio da un personaggio all’altro, per lo spostamento nello spazio e nel tempo e ci accompagnano nello slittamento emotivo. Il testo preleva sentimenti e atmosfere diverse fra loro: parla con fragilità, urla facinoroso, diventa fiabesco, poi cinicamente sferzante e usa funzionalmente la commedia. Le sue sfumature emotive arrivano amplificate anche grazie all’uso dei suoni naturali in background e alle metafore oggettivate dalla luce, che investe il pubblico in prima persona.
Chi osserva diventa infatti anche parte della rappresentazione: gli spettatori sono fatti accomodare sul palcoscenico stesso. Diventa facile rimanere spezzati e spiazzati davanti alla contraddizione che in quel momento rappresentiamo: siamo, realmente, nella vita di tutti i giorni, complici inconsapevoli di questo spettacolo di morte; oggettivamente, sul palco, veniamo osservati di sottecchi da una platea vuota, nascosti dietro le tende del sipario; venendo a conoscenza di una verità brutale, rimaniamo comunque spettatori passivi. Questa metafora parla da sé e tutti noi diventiamo un ingranaggio di una macchina fraudolenta e i toni cinici dello spettacolo ricordano le parole del reportage di Francesca Borri, contenuti nel suo libro “la guerra dentro”, che porta davanti ai nostri occhi l’esistenza di un’altra realtà, quella siriana.
Ci sfila davanti il senso della rassegna curata da Francesco Forgia, “Nuove Storie”, che si integra con le finalità del teatro dell’essenziale di Marco Vergani e Valentina Diana. La Passione, il Potere, la Politica, temi del festival, diventano spettacolo e bastano il pubblico, un testo e un attore a farci rendere conto che essendo noi promotori del sistema, bastiamo a rappresentarlo. Grazie alla “Nipote di Mubarak”, alle 3 P che rievocano Pier Paolo Pasolini, se ne aggiungono altre: Petrolio, Paura, Pianto. L’esperienza vissuta nella sala dell’Elfo Teatro ci ricorda quindi come sia compito del teatro, di chi lo fa e di chi lo fruisce, portare avanti altri rappresentanti della quattordicesima lettera dell’alfabeto: la Protesta, necessaria per dare collocazione a frammenti invisibili, diventando Portavoci dei soprusi che ci circondano per mezzo dell’informazione, del Pensiero critico e del buon uso della Parola.
Irene Raschellà
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