
Lorca, forse in uno stato di ispirazione mistica, come una Pizia iberica, oracola, attraverso un testo teatrale capace di compiere questo miracolo, la rinascita della tragedia attraverso lo spirito andaluso. Questa potente, meravigliosa intuizione è restituita dal regista attraverso una riuscita “teologia negativa” scenica. Per viam negationis, utilizzando con la perizia di barbiere il rasoio di Occam, egli riporta la vicenda alla sua essenzialità e, quindi, alla sua autenticità. Lo spazio scenico coincide con la scheletratura stessa del palcoscenico, luogo dichiaratamente teatrale, vuoto-pieno in grado di restituire tutta la potenzialità creativa di questa storia. La presenza di robuste corde che pendono dall’alto, ha tutta la parvenza di residui delle carrucole teologiche; di un, o, meglio, più deus ex machina che se ne stanno in panciolle a scrutare oziosamente la vicenda , più restii a comparire nel God(ot) beckettiano. E, ancora, diventano assoni e dendriti, elementi neurali di questo sistema nervoso/emotivo perennemente in attività, sull’orlo di una perenne crisi di nervi. Altra geniale intuizione del regista riguarda la velocizzazione della vicenda, il suo fatale passo veloce, che diventa il necessario complemento, contraltare dell’unità spaziale.
A fronte della lenta verticalità di Bernarda Alba, della sua volontà di sedare con l’anestetico del lutto, ecco la dinamicità delle figlie. Vederle, con agilità elettrica, coprire i vettori di movimento all’interno della scena, dà l’impressione di vedere tutto un mondo microscopico, molecolare, in grado di negare l’apparente staticità della materia. Tutto scorre, in fiumi emotivi dove le figlie non possono bagnarsi due volte. Mentre il giovane Pepe, l’oscuro oggetto del desiderio, capace di una potenza metafisica creata per absentiam, diventa un fatale oggetto di attrazione gravitazionale, destinato a tramutarsi in terribile black hole. Come insegna il buon Eschilo, e ne fa tesoro il drammaturgo, ha un terribile potere chi venera gli dèi; e l’hanno queste donne che venerano un dio umano, troppo umano, in grado di sturare tutta la loro repressa volontà di potenza. Mai, come in questo testo, il matriarcato perde la stantia banalizzazione di comfort zone antropologica, di ideale età dell’oro storica, riconquistando tutta la sua nitroglicerinica potenza esplosiva. Ogni personaggio femminile non è soltanto, forzatamente, vestito di nero, ma mostra il proprio lato oscuro, la propria tanatologica mortido, l’alfa e l’omega di ogni possibile esistenza. Sono accabadoras, pronte a usare il proprio martello contro le pareti che vorrebbero limitarle. Sinestetiche sensazioni sono evocate da parole che grondano sudore e umori di passione fisica. Si ha, più di una volta, l’impressione che si sentano odori della madida, torrida bella stagione andalusa. Si sente un caldo in grado di far perdere la cabeza, nel quale il cuore può compiere il proprio violento colpo di stato, sedendosi sul trono della ragione. Le donne della storia sembrano battiti sistolici e diastolici dello stesso grande cuore, frammentazioni di un femminile che ha tanto di quel sangue da poter scrivere il proprio desiderio, infinite volte, sulle pareti della casa. Interessante la presenza di un attore calato nei panni femminili, che accetta, e vince, la sfida di far dimenticare, cancellare, reprimere una fisicità torreggiante da tamburmaggiore woyzeckiano, per diventare una seta quasi adolescenziale; un paio di occhi con una bambola,che guardano, nella contraddizione della paura e del desiderio, fuori dalle finestre della casa. Ogni interprete fa un meraviglioso gioco di squadra. Ci si passa la palla delle battute con l’abilità del gioco calcistico carioca, in salsa brasiliana. Il contagio della passione non risparmia niente e nessuno. Anche se l’ultimo segreto della femminilità, che, ancora una volta, si esprime per negazione, attraverso la teologia negativa evocata all’inizio di questa recensione, appartiene alla madre. Lenta in umbra, si muove attraverso la vicenda e le rapide frasi emotive delle giovani donne, ritagliandosi il ruolo esegetico, simbolico, di punteggiatura: ora di calcato punto esclamativo, ora di definitivo punto di fine scena.
Quando si consuma il sacrificio, necessaria catarsi di questa tragedia del Novecento, quando il filo di queste iberiche Parche comincia a tirare maledettamente, Bernarda Alba acquista sembianze mitopoietiche. Diviene una sorta di Atena in disarmo, stanca della propria divina, apparente, indifferenza, devastata dai mal di testa dovuti al continuo esercizio di una razionalità formale; diviene l’euripidea dea ex machina. Ecco la concessione di Lorca a una qualche forma di divino, in uno straziante, funambolico equilibrio tra la pietas e il distacco. Sul ciglio del burrone dell’esplosione emotiva, del nero che inghiotte con una fame gargantuesca, il personaggio mantiene una misura, un passo lento, un tempo tutto suo, cairologico, un istante che sfida l’eternità, l’attimo di contenuto dolore che fa il paio con l’istante di felicità del sognatore dostoevskijano. E’ forse poco, in tutta la vita di una donna?
Danilo Caravà
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