Uno sguardo su “Kintsugi”

kintsugi

Kintsugi – ovvero Corpi: usure e suture

In questo progetto Giovanna Belloni trae ispirazione da un’antichissima arte giapponese che consiste nell’utilizzo di oro liquido per la riparazione di oggetti in ceramica, saldandone assieme i frammenti. Ogni aggiustamento, ottenuto con questa modalità a procedere, restituisce pertanto all’oggetto un intreccio di linee irripetibile che lo rideterminano quindi anche nella sua univoca utilità e bellezza, nonché narrazione. Come a dire che, da una scheggiatura, un’imperfezione, l’oggetto stesso ci riproietti nella possibilità di riascoltarlo e rielaborarlo perché venga accolto, al nostro sguardo e riutilizzo, in una nuova veste; riallacciandoci pertanto, dentro un rinnovato-ritrovato dialogo percettivo. Medesima analogia è con i nostri vissuti, le nostre storie-relazioni: noi, i nostri corpi, oggetti o soggetti ad uso e consumo di valori o disvalori, gratificazioni o usure del tempo.. . successi o cadute.. . le nostre ferite come rivificarle? È in quest’ottica di sensibilità che Giovanna Belloni accosta il lavoro coreografico con i suoi danzatori.

La sua è una danza di formazione contemporanea con attitudine al teatro danza. Le sequenze di natura intimistica studiano e sperimentano il corpo come per cercare una profonda motivazione degli umani sentimenti attraversandoli in tre quadri e affrontando tematiche come il bullismo-emarginazione, e l’alzheimer per confluire al cuore della ferita stessa nel quadro finale. Nella messa in scena si avvale della collaborazione di altri due coreografi: Daniele Ziglioli, nelle movenze del primo quadro e di Simone Magnani che, con delicatezza, dà il suo contributo alla coreografia del passo a due nel terzo quadro. Da sottolineare in quest’ultimo la musica dal vivo con Luciana Elizondo e le sculture di Giovanna La Falce, anche in scena mentre cuce una sottoveste su un manichino. La danza scorre di scena in scena indagando negli elementi di fragilità e solitudine, causa di ferite e conflitti, dove ognuno di noi può ritrovarsi nella precarietà di certe situazioni; come nei gesti del danzatore-aviatore, sospeso nel desiderio di volare, ma nella difficoltà di alleggerire il peso delle proprie responsabilità, per decollare il sogno nella realtà di sé stesso; oppure con la danzatrice che, nella ricerca di una identità, è confusa tra la scelta di questa o quella direzione; o ancora insieme, all’interpretazione del danzatore, nelle sequenze fisiche e mentali, all’anziano smarrito nel buio di una demenza che l’imprigiona al disagio, nella sua intimità domestica e quotidiana.

Lo stesso, calato tra il disporsi e il dipanarsi delle cose, mentre si muove annebbiato nel vuoto della memoria, lo guardiamo nel tentativo di afferrare qualcosa mentre di quel gesto ne osserviamo l’equilibrio precario e la conseguente caduta… A tavola, nel convivio corale-familiare quando, nel soccorso, al suo richiamo affettivo-effettivo d’aiuto, l’ascoltiamo, lui “l’anziano”, nell’urlo di protesta.. . un segno nervoso e disturbato che si estende agli altri danzatori con gesti espressi in schemi scomposti e ricomposti tra uno stordimento ora e la ripresa poi, quasi ad esprimere, se pure nella difficoltà, un pensiero libero e forse consapevole della dimenticanza dal ricordo dell’impedimento appena subito. Un lavoro coreografico non facile e con una spinta molto motivata al sociale da parte di Giovanna Belloni e delle altre competenze professionali che hanno collaborato alla realizzazione di questo spettacolo, che la vede anche nel ruolo registico. Difficile non apprezzarne le valenze e l’intreccio che concettualmente ne deriva, tra la presenza in scena di più competenze artistiche, cui non passa inosservato il canto della musicista che, come con un tratteggio fatto con la voce, suggella metaforicamente le ferite, rappresentate dai danzatori, con una soavità inaspettata, oppure le sculture che oscillano cementate dopo l’uso così intimo come sottovesti. Molte le riflessioni che suscita questa messa in opera, così come quelle che ci portiamo via, tutte interessanti e tutta materia viva da rimettere in gioco, perché, come si sa, ogni sutura necessita del giusto tempo perché conviva e coesista in noi al meglio per il nostro tessuto e vissuto personale.

Vitia D’Eva

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