Avete presente quel tintinnio del ghiaccio nel whisky on the rocks, quel campanello post-dionisiaco che suona al ritmo dell’ennesima sbornia? Ecco, le parole drammaturgiche di O’Neill fanno lo stesso effetto. Si potrebbe, agevolmente, chiamare in causa anche il buon jazz, con certi fraseggi che ti agganciano nell’ascolto, rendendo necessario che la melodia traguardi proprio su quella specifica nota. Il giocatore d’azzardo dell’atto unico Hughie, Erie Smith, è uno che sa – per scriverla alla Baricco – che non sei mai veramente finito, se hai una buona storia da raccontare. E’ uno di quelli che sanno benissimo, d’istinto, meglio del buon vecchio Wittgenstein, che i limiti di ciò che conosco sono dati dai limiti del linguaggio che mi appartiene. Sa che si è, anche e soprattutto, parola, che i più sono parlati, invece di parlare; lui, al contrario, riesce a tenere il comando. Trova la sua realtà aumentata, la sua mitologia, tutta americana, da raccontare, le sue memorie truccate come una partita di poker, per ripulire il pollo di turno. Se lo crea da solo il suo sound, il suo swing, con in mano la chiave della stanza, che lo aspetta quanto Vladimiro ed Estragone attendono il loro Godot; costruisce certe scariche di batteria che ricordano quelle di Take Five del Dave Brubeck Quartet.
Si riesce a sentire la stessa abilità di giocare con il tempo, di stringerlo o allargarlo, di renderlo una scenografia mobile delle battute, che può essere cambiata. E, fatalmente, si ritorna al jazz: a quegli accordi corposi, gustosi, che, qui, sono fatti di frasi. In scena, un lungo bancone sospeso, metronomo fermo da avviare, gioco di illusione cui si vuole tenacemente credere, altalena dei desideri che, perso l’ultimo tram, bivaccano nella hall di un “cimicioso” albergo. E, dietro di esso, un portiere di notte: il bell’addormentato nel bosco di acciaio e cemento di Broadway, la vita che non vive nelle minutaglie morali di Adorno, l’uomo con pochi centesimi di immaginazione in tasca. Insomma, due personaggi che se ne stanno lì, apparentemente distanti quanto due palle su di un tavolo di biliardo, ma che, con un colpo verbale del giocatore d’azzardo, possono toccarsi, o finire in buca. Mentre le insegne colorate lampeggiano da fuori, a ricordare i sogni elettrici da attaccare alle facciate grigie dell’esistenza, Lacan si ritrova tra le mille luci di New York, ricordando alla platea che le parole, prima di significare qualcosa, significano per qualcuno. E l’intuizione più grande della storia è la presenza-assenza di Hughie, il precedente portiere di notte defunto, il vero protagonista. Il misterioso terzo uomo aristotelico, l’Altro, inconscio, della storia, l’ineffabile desiderio che è sempre desiderio dell’altro.
Hughie è l’everyman di cui si ha bisogno, l’uomo qualunque, semplice e banale come riso scondito, lo specchio di una coscienza per riconoscersi nell’ascolto altrui. E la meravigliosa trappola, l’espediente di questo fantasma, di una metafisica molto umana e parecchio americana, avvicina, prima ancora del portiere, la platea tutta; come quando il viaggiatore distratto si fa prendere dal banchetto dove il biscazziere, coi suoi compari, aspetta qualcuno da incastrare col gioco delle tre carte. E le illusioni, le fanfaronate, i racconti delle grandi imprese degli dèi di bische, corse dei cavalli, romanzetti gialli, detective stories scritte su carta riciclata, attirano, mesmerizzano, riescono a prendere ogni poltroncina della platea, come riuscivano a farlo gli aedi. Basta un racconto, per salvare il racconto quotidiano umano: parole che curano quelle parole che siamo, teatro che ritrova tutta la potenza atavica, magica, misterica della parola. Roberto Trifirò, anche regista dello spettacolo, è un giocatore d’azzardo ideale, uno di quelli che hanno fatto davvero, del proprio demone, il proprio carattere. E’ esattamente quello che dice, ne subisce per primo la fascinazione; metateatralmente, racconta la fenomenologia di un’interpretazione, attraverso cui il magnete delle parole trascina, fatale, l’attore nel personaggio. E quelle sue dita asciutte, aracniche, quella preziosa e jazzistica sassofonicità della sua voce, quelle note di nasalità barricata, sono il valore aggiunto della sua interpretazione. Poi, certi sovrappensieri, studiatissime pause in cui, se ci guardi dentro, trovi un abisso di significati da farti venire le vertigini. Claudio Lobbia gioca al meglio il suo portiere di notte; lo costruisce per sottrazione, lo crea attraverso una stupenda teologia negativa, di atti mancati, di ciò che ha più valore nell’assenza. E’ un maestro zen che parla col cuore e con la mente, e lascia solo una sottile traccia di gocce verbali. E se Dio non gioca a dadi, lo possono fare i due protagonisti nel finale, in una dostoevskjiana Roulettenburg inventata, sul pavimento di una hall, in un albergo di Broadway.
Danilo Caravà
Leave a Reply