ProfAmà: intervista a Corrado d’Elia

d'elia

“Il nostro respirare dovrebbe essere più poetico per ricominciare a riflettere, e tornare farci domande. Così, io parlo ai geni, per parlare di me, di noi. Servendo l’arte, divengono ponti fra il mondo e ciò che il mondo ancora non sa di poter essere”

Dalla riflessione fra arte e rapporto col mondo al suo Galileo, Corrado D’Elia racconta se stesso e ci svela le novità della sua Accademia

Cari Amici di ProfAmà, finalmente torna il nostro appuntamento su milanoteatri.com per raccontarVi storie e protagonisti del Teatro. Uno di essi è Corrado D’Elia, attore professionista, pluripremiato regista e drammaturgo, fondatore della Compagnia Corrado D’Elia nella sua –e nostra– Milano.

Partendo dalla presentazione del suo libro “Galileo, Oltre le stelle”, il regista ci offre in questa intervista per la nostra rubrica un interessante spunto di riflessione sul rapporto dei geni col mondo, nella loro veste tanto più umana quanto più straordinaria.

Buona lettura,

Veronica

Corrado d’Elia è un affermato regista, drammaturgo, attore, insegnante, pedagogo e organizzatore di eventi teatrali e festival internazionali. Nato a Milano nel 1967, ha fondato la Compagnia omonima e l’Accademia professionale per attori di Teatri Possibili. Grande e appassionato scrittore, ha presentato il suo ultimo libro “Galileo oltre le stelle” il 18 settembre scorso alla Sala della Cavallerizza, parte di MTM (Manifatture Teatrali Milanesi di cui è stato anche co-direttore artistico) nel capoluogo meneghino.

Il suo libro, edito da Ares, fa parte dei cosiddetti progetti correlati agli spettacoli, o “album” andati in scena come racconti teatrali. Essi, dunque, sono frutto di una riflessione a posteriori di un’esplorazione di un personaggio via via diverso che ha rivoluzionato la nostra storia, la nostra cultura e le nostre conoscenze. Il risultato è un’esperienza immersiva in cui l’autore diventa narratore dell’anima di un personaggio geniale e umano, fra urgenza personale come riflesso di quella universale. In quest’esperienza poetica è coinvolto anche il lettore, che esce da quello spazio altro con un arricchimento in termini di considerazioni e pensieri.

In occasione della nostra interessante chiacchierata, Corrado ci ha raccontato ciò che lo ha spinto a scegliere grandi menti e pensatori fra passato e storia più recente. Alcune di queste figure giganti sono il già citato Galileo, Van Gogh, Beethoven, Dante e Steve Jobs, inserendole in un’atmosfera suggestiva, personale, profonda, e profondamente umana. Senza dimenticarsi delle novità della sua Accademia.

Ma, andiamo con ordine…

 “Racconto Galileo come un uomo non solo rivoluzionario, ma davvero intimo”

VF: «Buongiorno Corrado, benvenuto e grazie per essere ospite graditissimo di ProfAmà!” (Gentilissimo, subito suggerisce di darci del “tu”, nonostante sia realmente un grande maestro -n.d.r-). Ok, ciao dunque! Sono felicissima di ospitarti. In questo spazio parliamo di (grandi) professionisti del teatro e amatoriali, cercando di creare un po’ un ponte di connessione fra loro. Partendo da alcune frasi e ispirazioni di voi artisti, chiacchieriamo in modo molto libero. Per noi è importante rimarcare le caratteristiche comuni come impegno, dedizione e entusiasmo, ovviamente poi in proporzioni diverse. Naturalmente, chi vive con la grande fortuna di fare teatro professionistico ha anche modo di vedere molte realtà diverse, conoscere molte persone, viaggiare e ampliare il proprio percorso di arte e di vita.»

CDE: «Sicuramente. Facendo l’attore sono ogni giorno in una città diversa, incontro persone diverse. Guardando solo a questi giorni, una sera sono in Trentino, e il giorno dopo spesso sono da un’altra parte, e se riesco a tornare per tempo quando vado su piazza ho sempre una serie di incontri tra assessori, pubblico, biblioteca etc. Anche adesso, ad esempio, sono in pausa dalle prove.»

VF: «Indubbiamente è una vita pienissima! (sospira a mezzo riso -n.d.r.-)  Vorrei partire con la figura di Galileo Galileo. Mi ha colpita, a teatro, l’atmosfera di grande raccoglimento intorno all’essenzialità della scena del tuo spettacolo (ideata da Chiara Salvucci), con la tua sola presenza su un semplice sgabello, attorniata da grandi lenti che da strumenti diventano pianeti, diventano metafora di ciò che lui, Galileo quale uomo, al centro dell’universo, scopre e vede. E vediamo, tutti.»

CDE: «Vedi, io parlo di Galileo per parlare di noi, come parlo anche di Steve Jobs, Beethoven, Mozart e dei grandi geni. Accostarsi ai grandi geni vuol dire riuscire a provare quell’ebrezza, che non riusciremmo mai a raggiungere, ma provare un’ebrezza che ci permetta quantomeno di sfiorarli. Ed è questo sfiorarli che serve oggi al mondo, che in generale è apatico, non ha più maestri.  Guardando alle grandi personalità, invece, che poi fanno ancora parte della nostra vita. E non pensiamo soltanto a personaggi lontani nel passato: io, per esempio, racconto Steve Jobs, racconto perciò anche personaggi mancati da poco. Racconto una vita diversa, di personaggi che avevano un rapporto col mondo per così dire atipico e spesso non buono, poiché genio è colui che serve l’arte. Per noi è qualcosa che in generale non si fa, benché chiunque abbia un’arte accanto a sé decida di servirla in toto, come fanno i geni. Beethoven, per darti un’idea, camminava per la strada muovendo le braccia, e tutti lo prendevano in giro. Per questo comportamento, per ragazzini, persone più adulte  era facile prenderlo in giro. In realtà, per Beethoven era la cosa più naturale. Van Gogh usciva di casa con il suo cappello di paglia e le sue tele sulla spalla, e per questo era deriso. Il genio non è mai amato, ha un rapporto unico col mondo e con l’arte rispetto all’altra parte dell’umanità e quindi si isola, però allo stesso tempo ci regala delle vette pazzesche. La stessa cosa vale per Galileo.

Quando ho scritto questo libro, o ho fatto questo spettacolo, ho pensato a un uomo di oggi, complesso, straordinario, un grande genio insomma. Anche qualcuno che, comunque, attraverso domande, ambizioni e desideri alla fine ci ha regalato tanto. È per noi importante e urgente riflettere, farci domande. Che è quello che sinteticamente il mondo contemporaneo meno fa. Il nostro respirare dovrebbe essere più poetico, più avido di sapere, mentre in generale, quello di cui ci parla il mondo odierno è una normalità, tra virgolette, pratica, no?!»

VF: «Assolutamente. Nella nostra società sembra non esserci più spazio per ciò che esula da ciò che è meramente funzionale. Purtroppo!»

CDE: «Si, anche perché la poesia è, come detto poc’anzi, l’ebrezza, un respiro diverso; l’arte non offre certezze, la poesia non offre certezze, mentre oggi si normalizza tutto e si mistifica la verità. Per questo era importante oggi parlare di Galileo e farne soprattutto un uomo nuovo, non solo un genio della sua epoca»

La solitudine dei geni, sposi dell’arte: abbracciandola, si rivela potente motore creativo

VF: «Aprire alle emozioni del personaggio lo ha reso un po’ più tuo? Nelle tue parole, o nelle sue, che tu hai portato alla luce, traspare una vena di solitudine. Non a caso, i geni sono stati storicamente isolati, pur con le loro passioni e i loro affetti, le delusioni, le paure. Un po’ come accadde per Galileo, fra gioia per la scoperta e dolore per l’abiura e per l’esilio. Non solo pratico, ma soprattutto l’alienazione emotiva e lo schernimento, come hai spiegato prima. È un uomo che aveva la capacità di meravigliarsi, che in teoria dovremmo avere tutti, ma a volte filtriamo un po’ noi stessi. È un po’ un uso errato delle nostre lenti, per ricollegarmi. Come se filtrassimo tutto quello che vediamo pur sembrando così lontani, estranei alle cose. Non riusciamo più a cogliere quello stupore totale. Lui, come i grandi, lo faceva, però era un emarginato. L’outsider, insomma. In qualche modo, il suo tormento interiore lo allontanava da coloro che non vivevano in questa pienezza della loro arte, della loro bellezza, che si scontrava con la grande solitudine di fondo.

CDE: «Galileo è un uomo che racconto come rivoluzionario, ma in modo molto più, intimo, facendo emergere questo aspetto di uomo solo nella sua arte e rispetto al mondo. Fondamentalmente perché ogni uomo è solo. Se ci pensiamo, tutti siamo soli. Non è il “rito dello spritz” che ci fa dire che con gli amici siamo meno soli; l’uomo nasce e muore solo.  In realtà il genio lo è ancora di più perché il genio serve alla propria arte e fra l’altro ha un rapporto col tempo diverso dal nostro. Più in generale chiunque è solo, e anche chi crea artisti, produttori, lo fa da solo. Il fatto che poi tu ti metta insieme con altri attori, registi, produttori, editor etc, è un insieme di riti di accompagnamento, ma noi, in particolare noi come artisti, facciamo della solitudine qualcosa di positivo.

VF: «A te quindi piace la solitudine, intesa come alienazione dal mondo e percezione della bellezza o, viceversa, è una cosa con cui ti scontri e non ti ci trovi? Benché la riflessione profonda sia abbastanza percettibile.» (ride -n.d.r.-)

CDE: «Io ho bisogno della mia solitudine, la considero in maniera positiva. Il genio ovviamente è quello ancor più capace di creare profondamente, e dobbiamo pensare questo aspetto alla massima potenza, perché geni e anche artisti servono la loro arte in tutti gli aspetti. Sono sposi della loro arte, e non ne sono solo accompagnatori

L’Accademia: “luogo di trasformazione, contro una logica di semplificazione, guardando l’insegnamento e le lingue dei maestri, in un percorso di crescita personale”

Oltre che regista e attore, D’Elia ha fondato la Sua Accademia.

VF: «Parliamo un po’ dell’Accademia»

CDE: «Teatri Possibili esiste da quasi 30 anni. Non è soltanto una scuola di teatro, ma è un’associazione che fa tantissime cose. Siamo partiti a fare corsi, soprattutto serali, anche per il tempo libero, con l’idea di avvicinare le persone al teatro. Poi, dopo qualche anno, abbiamo introdotto questa Accademia che seleziona dei talenti e li accompagna nel loro percorso artistico. Dura due anni e i corsi sono di sei ore al giorno, con quelli che sono per noi i migliori docenti, di provenienza italiana e internazionali. Cerchiamo di andare un po’ contro in realtà una logica di semplificazione che esiste oggi anche nell’insegnamento del teatro. Lo facciamo con l’insegnamento di grandi maestri, e qui torna il tema, con le lingue dei grandi maestri che sono spesso dimenticate. Noi, attraverso un percorso molto rigoroso formiamo queste persone, e formare le persone al teatro vuol dire anche far fare a loro dei percorsi di crescita personale ovviamente quindi non pensiamo e non formiamo soltanto. Pertanto, noi non formiamo soltanto attori, cioè, sicuramente ne avrei di più preparati, e allo stesso anche spettatori più pronti, consapevoli e attenti. Certamente, l’esperienza che faranno in Accademia la ricorderanno per tutta la vita. Parlare di “accademia” vuol dire anche parlare di un luogo di trasformazione. Se qualcuno ha un talento, incontrerà il mestiere, ma se qualcun altro vuole solamente formarsi, si metterà in gioco e troverà comunque qualcosa che non dimenticherà più. Noi formiamo le persone con quelli che noi chiamiamo i “fondamentali del teatro”, quindi lezione, fonetica, teatro-danza, corpo e uso del corpo, voce, tutto quanto»

“Oggi c’è bisogno di attori”

VF: «Che tipo di formazione offre il vostro percorso?»

CDE: «La formazione è intensiva, le lezioni sono quotidiane, e gli allievi hanno anche la possibilità di lavorare tra di loro al fine delle lezioni, al fine delle sei ore. È importante tuttavia capire che questo metodo si fonda sulla pluralità; molte scuole insegnano un metodo, ma dopo tanti anni abbiamo capito che formare un attore accade per vie anche molto diverse: soprattutto tradizione da una parte, ma dall’altra sperimentazione. Oggi non puoi non parlare di cinema con un attore, ad esempio. Questo sostanzialmente, poiché rilasciamo sì, un attestato di frequenza, ma in realtà è una pura formalità: alla fine il vero risultato sarà quello che ogni allievo avrà costruito dentro di sé e quindi competenza, esperienza, disciplina, libertà creativa, emotiva, insomma, quello è il vero patrimonio che poi è destinato a durare più che il diploma, che comunque rilasciamo. A questo teniamo molto, anche se è molto costosa l’Accademia per noi. Abbiamo pensato di portare le quattro ore quotidiane precedenti a sei» (-spontaneamente, in un frammento di pausa mi viene da replicare -VF: «Che sono anche parecchie!»- per poi subito lasciare la parola al nostro ospite -n.d.r.). Riprende: «sì, le ore quotidiane sono aumentate per dare ancora più formazione. Oggi c’è bisogno di attori, c’è bisogno di persone che si mettono insieme a fare spettacolo. I teatri sono pieni di regie, e spettacoli di personaggi televisivi. È diverso parlare di spettacolo o di teatro. E oggi si fa molto spettacolo, diciamo più intrattenimento, ma il teatro è una cosa diversa: ti fa pensare.»

VF: «Pensi che il teatro sia ancora fonte di comunicazione vera? Se lo è, a livello di comunicazione educativa, è specchio di quello che è la sua società, o questa si è molto allontanata da esso?»

Piccolo aneddoto: dato che in ProfAmà non ci nascondiamo dietro alla perfezione o dai momenti più emotivi (-insomma, teatro è anche riflesso della vita, e la vita è fatta anche e per fortuna di emozioni spesso caotiche che ci colgono impreparati- n.d.r.) ammetto con Voi lettori che la domanda la esprimo in modo sufficientemente contorto (concedetemi anche un po’ il brioso misto ansia/emozione -n.d.r.) E Corrado, garbato e con molta trasparenza, mostrando l’interesse concreto per quanto gli chiedo o rispondo (e non sempre è così, fidatevi -n.d.r-) senza tuttavia mettermi in imbarazzo alcuno, mi risponde di non averla compresa appieno, e di riformularla.

“Il teatro è sempre un rito, è comunità che si riconosce, è riconoscersi, e  lo spettacolo dal vivo non è la rappresentazione di qualcosa, è l’incarnazione di qualcosa”

(penso “ok, brava V, brava…” -n.d.r.-) VF: «Ok. Scusami (-perfetto V, perfetto… -n.d.r-)

Il teatro nasce con una finalità fin dagli albori, già nella tragedia greca etc, quale formazione, educazione e monito sociale, insegnando “pietà e terrore”; insegna i valori della società che a teatro confluiscono per poi essere portati in scena per il pubblico. Un pubblico estremamente partecipe, attento, in un rito quasi sacrale, di purificazione. Quanto si può definire il teatro ancora così? O, meglio, può esserlo ancora?»

CDE: «Il teatro, intendo quello di spettacolo e non di trattenimento è sempre un rito. Il teatro, diceva Strehler, è “quell’umano che si fa ogni sera”. In questa definizione c’è tutto: cultura, umanità, desiderio. È una comunità che si riconosce. Ogni volta ci riconosciamo: nella lingua, nei segnali visivi emotivi, nella nostra cultura; il teatro  è riconoscersi. Questa cosa fa parte di un rito molto antico che vive e vivrà sempre così esattamente perché si chiama spettacolo dal vivo. Quindi, attenzione, non è la rappresentazione di qualcosa, bensì l’incarnazione di qualcosa»

VF: «Questa “nuova spettacolarizzazione” non rischia di rappresentare una scena che sorprende molto più dal punto visivo che della narrazione, perdendo così anche il messaggio che si vuole trasmettere? Senza usare il termine snaturare, ma più  impoverimento di contenuti? In verità hai già risposto sottolineando la differenza di spettacolo e divertissement, volevamo un’effettiva conferma»

CDE: «Esatto, è come se cambiasse il parametro teatrale, fra le due cose, e per come io intendo il teatro, che è a tutti gli effetti un’enorme risorsa.»

Corrado e l’ “Io,”: è più importante l’arte o la vita?

VF: «Ultima domanda: il tuo percorso, o cammino, come uomo di teatro. In riferimento al tuo Dante, dall’Inferno in poi, e soprattutto nel Purgatorio c’è il concetto dell’uomo che riprende il suo cammino, partendo in maniera pesante e faticosa, ma via via alleggerendosi nella salita attraverso l’ambito poetico. È come se grazie alla poesia si diventasse più liberi, e di conseguenza, “leggeri”. E tu? In quale stato di te stesso ti senti quando lavori, elabori uno spettacolo, un tuo album, un tuo personaggio: come ti eleva?

CDE: «Io scrivo sempre e leggo sempre. Ci sono tanti momenti, purtroppo in pochissimo tempo, però fra treni, aerei, ristoranti alberghi, e tendenzialmente scrivo sempre mi piace mangiare da solo la sera, nei ristoranti, in giro per l’Italia, in un momento di colazione, mi sveglio prestissimo, e quindi è un travaso un po’ naturale, nel senso che mi sento molto creativo. Questi pensieri, questi personaggi sono già dentro di me: quando dico “Ludwig Van Beethoven, dico “Io, Ludwig Van Beethoven”. Quell’io lo antepongo, così come quandodico “Io, Moby Dick”, dico Io. Quell’ io vuol dire che racconto di altri, ma al fine parlo anche di me. I temi che comunico rispetto all’arte, alla solitudine, alla perdita, e all’amore per il teatro, così come rispetto all’amore per l’arte, partono sempre da cose, da urgenze mie, quindi è molto facile per me. Mi accosto e scrivo. Scrivo tantissimo, tantissimo. Mi sento anche abbastanza veloce. È come se non fossi esattamente io., o questa è un po’ la sensazione. Mi metto e scrivo, e poi cambio, poi rifaccio, poi scrivo. Anche quattro libri insieme. Adesso ho appena finito “Il ritorno del Piccolo Principe”, ma sto scrivendo un sacco sull’importanza della regia. Ho fatto l’adattamento di “Macbeth, Inferno” (in scena al Teatro Leonardo di Milano dal 23/10 -n.d.r.-). In sintesi, sì, io scrivo sempre, viaggio velocissimo. Il vero problema è la vita,capisci?»

(Su questa frase mi fermo, in attesa di sentirne il senso che D’Elia le attribuisce. Poco dopo, riprende -n.d.r.- )

«Il vero problema è la vita, perché la vita fa sì che a un certo punto ti bussino alla stanza, che ti chiami qualche parente, che incontri qualcuno per strada che ti riconosce e ti attacca un pippotto esistenziale micidiale. Il vero problema è la vita: dipende da te a quanto spazio dare alla vita, nient ‘altro. 0:21:53 (Speaker 2)

VF: «Si inserisce un pochino in questo flusso personale, possiamo dire così?»

CDE: «Nello spettacolo su Van Gogh, riprendevo e affrontavo la domanda: è dunque più importante l’arte o la vita? Il quesito è di per sé un crinale, qualcosa di fondamentale. Dunque, Veronica, è più importante è l’arte o la vita? Ti lascerei con questa domanda, perché ognuno poi la interpreta a modo suo

Quando ci salutiamo, ringraziando, la domanda -che mi ha colta un po’ impreparata- mi resta impressa. Mi interrogo e re-interrogo con quelle stesse parole.

Penso al genio che scoprì l’eliocentrismo, ridimensionando l’uomo a piccolo essere al centro di un universo più grande. (E già questo basterebbe a bucare qualche palloncino pieno di ego, non solo idealmente di quei tempi… -n.d.r.-)

D’Elia ci regala, a teatro come nelle pagine del suo libro un personaggio appassionato e pieno di emozioni contrastanti: l’autore ce lo mostra andando oltre all’uomo straordinario, in maniera anche spirituale. Entra, come con gli altri personaggi a cui dà vita, seppur in punta di piedi, in quella sfera meno narrata della storia personale e ne racconta i profondi “movimenti dell’anima”.  Con questa sua biografia, la sfera della sua crescita umana si inseriscono in quella intellettuale. D’Elia ci fa immergere nella solitudine e nelle contraddizioni di Galileo, nel rapporto conflittuale con la Chiesa, in una triste lotta per difendere le sue scoperte. Un genio, ma che prima è figlio; è un padre, un innamorato, un uomo inquieto e curioso, perso nell’ammirazione del cielo e delle sue stelle. Diventa un uomo che affronta con coraggio sfide personali e contro dogmi, paure dettate dall’ignoranza del suo tempo. E lo fa, da uomo isolato, condannato dalla società, dagli altri, in nome della libertà del pensiero. Collettiva.  Quella che oggi abbiamo il diritto e il dovere di ricordare, affermare e salvare. A ben riflettere, la ricerca dell’autore, così come del personaggio che vive nella sua narrazione è quella di un equilibrio nell’eterna dicotomia umana fra la razionalità della scienza e il mistero proprio della fede.

E a dirla tutta, per ciò che stiamo drammaticamente vivendo storicamente, ritrovare quel punto di equilibrio umano in cui collocare -o ricollocare la nostra coscienza-, anche attraverso il teatro, è più che mai un’esigenza dell’esistenza sempre attuale. Per noi stessi, per quel “noi” che fu, e per quel “noi” che, forse e molto speranzosamente, ancora sarà.“Eppur si muove”, esclamò (o così si sostiene -n.d.r-) Galileo. Trovò la poesia più alta nella bellezza scientifica delle stelle.

Chissà se, questa volta, potremo affermarlo noi, modificandola forse anche un po’, come un “eppur si smuove”, in merito alle nostre coscienze di terrestri. Di persone, finalmente davvero capaci di tornare a riveder le stelle della bontà umana. Da lì, forse potremo risponderci. Infine, o d’un tratto e d’un nuovo inizio, alla domanda che ci ha lasciato Corrado D’Elia: è più importante l’arte o la vita?

Veronica Fino

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