
Andiamo a conoscere meglio la Compagnia radiceibrida incontrata in occasione della loro partecipazione al Festival Hors con lo spettacolo “Giochi notturni” visto al Teatro Litta. Una chiacchierata con Giulia Di Sacco, Francesca Macci, Lapo Sintoni e Diana Bettoja.
Giochi Notturni è uno spettacolo che indaga la violenza e in particolare quella domestica e di genere. Come vi è venuta l’idea di trattare queste tematiche all’interno della vostra prima rappresentazione?
Giulia: Il lavoro è partito da molto prima della struttura drammaturgica: ci siamo trovati e sapevamo che volevamo parlare del tema della famiglia, anche in senso più largo, soprattutto sulle dinamiche tra fratelli. Voler parlare della condizione della donna è venuto quasi spontaneo ed è un tema che interessa noi tutti. Il plot è venuto poi dall’idea di costruzione di un alibi da parte di una delle due sorelle dopo un’aggressione per giustificare la propria vendetta privata. abbiamo voluto parlare di come spesso la giustizia non agisce su un piano burocratico e lineare come dovrebbe essere, ma anzi spesso la violenza causa altra violenza. Infatti la rappresentazione mostra un circolo di violenza senza fine, che genera odio fra le due sorelle.
Quali studi avete fatto sulla violenza domestica e di genere prima di scrivere il testo?
Giulia: Ho letto diversi studi universitari sulle invidie fra fratelli rispetto alle attenzioni ricevute in situazioni di abuso e le conseguenze che creano negli individui adulti, come per esempio la tendenza ad avere dipendenze come l’abuso di sostanze.
Lapo: Abbiamo interpellato un nostro amico psicoterapeuta che si occupa sia di bambini, che di adulti per avere coerenza in quello che raccontavamo. Paradossalmente l’invidia è una dinamica tipica di quando i fratelli sono piccoli: quando uno dei due subisce violenza, ci sono due strade: o quello che la sta subendo si sacrifica per evitare che la violenza passi all’altro, oppure l’altro, non sapendosi spiegare perché riceva meno attenzioni, diventa fortemente invidioso.
Avete raccolto le testimonianze? Come si è svolta la ricerca?
Giulia: Mi sono mossa a livello pratico e freddo, ho cercato di analizzare l’argomento a livello di causa-effetto. Ho scritto in base alle ricerche che ho fatto e poi abbiamo presentato il tutto allo psicoterapeuta. La grossa sfortuna è che abbiamo fatto tutto durante il Covid, per cui informarsi di persona era complesso. Però ci sono tantissimi articoli di psicologia infantile che parlano proprio di sviluppo: incontriamo la persona di 6 anni che ha subito la violenza e poi la incontriamo di nuovo a 40 anni e si fa il paragone. Ho cercato di coprire un po’ questa fascia di età e quindi di mostrare cause e conseguenze.
Il periodo Covid in cui è stato scritto è anche un periodo in cui le liti fra le mura domestiche si sono moltiplicate. Quanto l’idea e il testo sono stati influenzati da questo?
Giulia: Il periodo mi ha fatto riflettere molto anche sul tema degli abusi e delle violenze sessuali: di quanto sia spesso difficile, quanto ci sia ancora da spiegare agli altri, spesso anche ad altre donne e di quanto ci sia ancora da dover guadagnare a livello di diritti. La scrittura di questa storia mi ha fatto molto riflettere: on-line ci sono molti commenti di donne verso altre donne vittime di violenza sessuale che colpevolizzano le vittime per come si sono vestite o comportate. Commenti di donne madri davvero sconvolgenti e questo è proprio quello che fa Elisa, quel tipo di accusa lì, quel non credere alla violenza accaduta e dire: “Dillo che lo volevi anche tu”. Una linea di non comprensione, si ritorna sul tema delle invidie. Quando abbiamo fatto la prima lettura è stato allarmante vedere quanti rimandi c’erano poi nella quotidianità di quel periodo alle notizie che venivano date al Tg.
Da questo testo incentrato sulle emozioni e su dialoghi forti, piuttosto che sulla fisicità e sull’azione, com’è stato il flusso di lavoro per la regia? Quali sono state le priorità registiche nel portare in scena questa drammaturgia molto intimista, fatta di non detti e di vissuti tormentati?
Lapo: Giulia ha avuto carta bianca per la scrittura perché prima abbiamo fatto lunghe riunioni in cui ci dicevamo di cosa volevamo parlare. I temi quindi li avevamo già abbastanza concordati a monte. Quando è arrivato il testo non potevo aspettarmi nulla di diverso. Quando si tratta di violenze psicologiche, si parla sempre di qualcosa di molto sottile e quasi dolce, come dice il personaggio di Margherita nella sua storia: “lo zio era dolce, lo zio ci voleva bene”. Ci sono sempre queste apparenti calma e gioia, ma allo stesso tempo aleggia una terribile crudezza. Quando è arrivato il testo, io ero abbastanza sicuro di non voler mettere tante cose: volevo far sì che l’azione scenica fosse espressa da Giulia e Francesca, volevo far tirare fuori a loro una relazione, un rapporto reale che come conseguenza sul pubblico permettesse di aprire un immaginario. Non cercavo l’effetto del dramma, è già drammatico il testo, il pubblico avrebbe fatto il resto. Paradossalmente la sensazione di freddezza che traspare da queste situazioni familiari è più d’impatto di una drammaticità mostrata. Anche le ultime indicazioni quando facciamo le riprese sono sempre più di cesello: il testo si presta ad essere “strappalacrime”, possiamo togliere tutto questo perché lo spettatore già lo sa. Ho sempre pensato a una regia che alternasse di battute fittissime a monologhi più lenti in maniera un po’ sinusoidale: attimi fitti alternati a momenti di stasi, che però non sono mai calmi, bensì densi. C’è tensione, non cade mai l’attenzione.
Ho lavorato prima solo sulle scene a due perché non capivo come collegare bene i monologhi. Ci siamo interrogati tantissimo. Io non ho mai fatto un lavoro da solo, è sempre stato un lavoro collettivo sulla scena. Si facevano proposte e si provavano. Ho sempre cercato di annullare il mio gusto e di prendere la scelta che servisse alla scena. Il monologo è stata la chiave per dire qualcosa di più sui personaggi: lo abbiamo fatto diventare il momento di sincerità, dove i personaggi si svelano abbattendo la quarta parete. Il personaggio sente la necessità di fare precisazioni per raccontare meglio il suo rapporto con l’altro. Io dico sempre a Giulia che il suo personaggio lo voglio lucido come un serial killer, consapevole di quello che ha fatto e freddo come il ghiaccio nel cercare una soluzione.
Nello spettacolo c’è un’aura di violenza e angoscia costante, che pervade la scena anche se non si vede, dettata da una forte urgenza costante che guida le azioni delle due sorelle, senza mai palesarsi sul palco: forse questo non vederla, ma sentirne parlare, la rende ancora più forte ed è anche in tema con la violenza di cui si parla, che è una violenza per cui spesso, nonostante le prove, non si viene creduti. Infatti le due sorelle hanno il problema di non sapere se saranno credute e quindi iniziano a pensare a degli escamotage per non essere colpevolizzate.
I dialoghi di “Giochi notturni” sono molto verosimili: esprimersi tra fratelli senza filtri, cercando di mostrarsi forti e celando delle volte le emozioni. Avete fratelli o sorelle? Come avete lavorato per rendere realistici i dialoghi?
Francesca: Ho un fratello molto più piccolo di me e molto diverso caratterialmente. In questo spettacolo l’intento era cercare la sincerità e quindi abbiamo attinto anche molto alle nostre esperienze personali e al nostro vissuto. Spesso mi capita di cercare di responsabilizzarlo perché lui magari non pensa molto alle conseguenze delle sue azioni. Nel testo questo meccanismo è portato all’estremo perché Elisa deve responsabilizzare la sorella più piccola su temi molto importanti come un padre che se n’è andato e una madre con problemi di alcolismo. Il primo step appunto è stato attingere dalla mia esperienza personale, poi però abbiamo creato il nostro rapporto sulla scena in un modo che fosse specifico tra di noi e ci siamo interrogate su chi fosse Margherita per Elisa e viceversa. Ci siamo interrogate su tutti gli aspetti della loro vita per renderlo il più vero possibile. Uscivamo da alcune prove infervorate e sembravamo davvero due sorelle che litigano: avevamo ben chiaro cosa avrebbero rappresentato l’una per l’altra. Era importante pensare ai passati dei nostri personaggi come dei passati di entrambe: non era mai cosa ha vissuto il mio personaggio, ma cosa hanno vissuto insieme e come ciascuna delle due ha vissuto lo stesso evento. Ci siamo create dei background che hanno reso concreto il nostro rapporto.
Giulia: Concordo su tutto, ormai abbiamo instaurato un rapporto in scena molto forte. Il testo c’è, sappiamo cosa deve succedere, la relazione fra le due sorelle è forte quindi è bello cavalcare l’onda e vedere ogni volta come questi due personaggi si parlano. Io ho un fratello molto più grande con cui ho un buon rapporto, per cui per me è molto chiaro vedere il fratello maggiore come un qualcuno su cui fare affidamento, su cui contare. Margherita guarda molto a Elisa come la persona che può salvarla e alla quale appoggiarsi. Tutto quello che fanno lo fanno insieme, nonostante tutto. Margherita vuole sempre Elisa con sé: nonostante tutti i diverbi, la prima persona che si chiama è la sorella. Che sia un legame buono o cattivo è da capire, però è un legame indissolubile che si vede in queste dinamiche.
Lapo: Ho un fratello di due anni più piccolo, ho vissuto spesso queste dinamiche di continui litigi, per cui una cosa su cui ho insistito molto con Francesca e Giulia è stata il creare quell’aura di non detto che tra fratelli c’è: niente spiegoni per il pubblico, ma allo stesso tempo creare un contenitore saldo nel quale poi giocarci dentro. Spesso dicevo: “fai quello che senti perché la situazione ti ci porta”.
Francesca: Per creare un rapporto tra sorelle realistico, abbiamo sempre cercato di risolvere i problemi di trama senza mai prendere la strada facile del “vabbé ma son sorelle”, chiunque l’avrebbe fatto. Ci siamo invece interrogati in maniera specifica sul rapporto fra queste due sorelle, non abbiamo sottovalutato la complessità di un rapporto familiare. All’interno ci sono tantissime sfaccettature, poiché non a caso la famiglia non te la scegli: cercavamo di far sì che tutte queste cose lavorassero dentro di noi e non fossero date per scontate. Nelle famiglie c’è anche l’odio e la repulsione. Si può anche dire “lo faccio perché sei mia sorella”, ma è difficoltoso.
Da quanto vi conoscete e lavorate assieme? Quando è nata la vostra compagnia?
Diana: La nostra compagnia non è nata in un momento preciso, ma ci siamo presentati a un bando dell’accademia con due spettacoli diversi nel 2020. Sia durante l’accademia, che nella preparazione di questi due spettacoli ci siamo ritrovati a passare molto tempo assieme, per cui a un certo punto nel maggio 2021 ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: ma noi potremmo essere una compagnia! Paradossalmente la pandemia è la cosa che ci ha tenuti stretti: in quel periodo siamo tornati tutti a casa e non potevamo fare nulla, questo ci ha permesso di stare attaccati gli uni agli altri tramite le videochiamate. Il bando lo sentivamo sempre più come un obiettivo, adesso ci stiamo lanciando proprio come compagnia.
L’altro spettacolo si chiama “Figli”. C’è sempre un tema sociale o vi siete spinti in direzione diversa?
Giulia: A livello di stile drammaturgico è molto diverso, mentre a livello di tema c’è in comune la famiglia: parla di un fratello che torna nella sua casa d’infanzia, che sta per essere venduta e ha un momento catartico in cui viene catapultato nei suoi ricordi e intraprende un percorso fra i ricordi che lo fanno confrontare con un evento importante nella sua vita e quella di sua sorella. E’ un viaggio di redenzione un po’ dantesco, è un viaggio di ascensione tra famiglia, malattia, depressione, fratellanza e ricordi. Ho cercato di focalizzarmi molto su come ricordiamo e come funziona in questo il nostro cervello.
Lapo: non volendo abbiamo scoperto una linea conduttrice tra questi due spettacoli.
Si tratta quindi di un caso o di una linea stilistica che volete portare avanti?
Giulia: Tutti siamo liberi di scegliere dove andare, anzi è bello pensare che possiamo fare tutto quello che vogliamo. Però sicuramente per me il lato della famiglia me lo porto tanto dentro ed esce fuori. Diciamo che vorrei continuare.
Lapo: Non ce ne siamo accorti finché non li abbiamo messi in scena. Questo ci ha dato uno spunto per il terzo testo e ci siamo detti di fare diventare questo un trittico a tema famiglia e poi cambiare argomento. Poi il metodo differente sia di scrittura che di regia ha alimentato gli stili differenti dei due spettacoli.
Jasmine Turani
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