
Accade un momento in cui mente, corpo e anima riescono in quel complesso congegno che è la comunicazione. Il messaggio concepito nel proprio personale dialetto finisce col resistere alle incongruenze per stanziarsi nell’ante-babele e vincere il disturbo interposto alla comprensione.
Accade che le affinità di anima, mente e corpo giungano ai gesti e alle parole rimanendo poi effuse come un magnetismo. È raro ma accade.
È quando accade che ci si salva. Oppure, posto che il salvataggio richiede uno stare in vita, è quando accade che si vive.
Ritratto della salute è la testimonianza di questo bagliore, di questo successo comunicativo che tutto si realizza all’interno di un corpo, quello di Chiara. Un corpo abitato da un hamburger di 12 mm ca. Un corpo col tumore, che così vale la pena chiamarlo. Chiamare le cose col proprio nome affinché si affidi dignità e possibilità alla comprensione.
Ritratto di una salute stanca, di una stanchezza che non è pigrizia ma disfunzione. Una salute che si è stancata e ha bisogno di revisione. “Vi affido il mio corpo, aggiustatelo e ridatemelo”, continua a ripetere la Stoppa. Ma c’è un errore ontologico: davvero è possibile affidare ad altri un corpo che per natura, fraseologia, anatomia è mio?
E se fosse che è quando si prende coscienza della possibilità di scelta e della esigenza di libertà corporale che si svela la via per sanare una disfunzione, per sciogliere quella stanchezza, per dar corpo al miracolo della comprensione?
Ritratto della salute è la storia di una malattia, del suo incedere, delle sue vittorie ma della sua sconfitta. Chiara Stoppa con disinvoltura riesce nell’impresa non facile di dar voce a un racconto autobiografico senza scadere nel incombente rischio di adesione alla dinastia del patetico. L’inflessione al pietismo, che ci si aspetterebbe di trovare in agguato dietro al lembo del sipario alla sola dizione della parola cancro, è spazzata via dalla capacità con cui il racconto è imbastito e dalla caparbia interpretazione della Stoppa, o forse sarebbe il caso di dire dal suo modo di essere.
Lo spettacolo colpisce in quelle brevi intermittenze di profonda verità che chiamano in campo la carne e il corpo, le gambe. Abbondano, tuttavia, intermezzi di “circostanza”, di retorica che forse per difesa diventano stasimi indispensabili ma anche funzionali alla valorizzazione di quel che resta celato.
Alessandra Cutillo
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