“Il racconto dell’ancella”: 5 domande a Graziano Piazza

ancella
foto Pino Le Pera

Nato a Domodossola, ma cresciuto a Torino, è un attore, regista teatrale e scultore.

Si avvicina al teatro da bambino grazie al mimo Marcel Marceau, con il quale partecipa a un seminario sulla maschera neutra. Durante il liceo viene scelto da Ugo Gregoretti come giovane attore per lo sceneggiato televisivo Il Conte di Carmagnola, con Vittorio Gassman. Subito dopo inizia a lavorare al Teatro Stabile di Torino nello spettacolo Il mio regno per un cavallo di Franco Passatore.

Ha così inizio la carriera teatrale di Graziano Piazza incontrando grandi maestri della scena nazionale e internazionale come; Peter Stein, Benno Besson, Luca Ronconi, Anatolij Vassil’ev, Massimo Castri, Federico Tiezzi, Giancarlo Sepe e la sua Comunità Teatrale con il quale partecipa a spettacoli su Beckett, Brecht fino a Fitzgerald per la Versiliana.

Alterna spettacoli classici a una ricerca di personaggi dalla forte connotazione contemporanea e sociale, portando il teatro tra bocciofile, piscine, discoteche, birrerie, cucine di mense popolari, chiese sconsacrate, vivendo la necessità di comunicazione attiva e di coinvolgimento diretto con lo spettatore.

Con Viola Graziosi e il sodalizio che li lega, lo porta a sviluppare percorsi registici e creativi originali che indagano il femminile nella sua liquidità come in Offelia Suite, dal testo di Luca Cedrola fino a The Handmaid’s Tale, spettacolo tratto dal romanzo Il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood.

Quest’oggi parleremo proprio dello spettacolo Il Racconto dell’Ancella e per questo motivo ho contattato, e ringrazio per aver accettato l’invito, Graziano Piazza per rispondere alle mie 5 domande.

Ti chiedo subito quando e perché nasce lo spettacolo Il Racconto dell’Ancella?

“Quando uscirò di qui,
se mai sarò̀ in grado di raccontarlo in qualsiasi forma,
anche nella forma di una voce che racconta…”

Quando Laura Palmieri ha proposto a Viola un reading per l’8 marzo 2018 di Radio 3, su Il Racconto dell’Ancella, nella bella riduzione di Loredana Lipperini, sono stato subito un osservatore attivo del lavoro che si stava svolgendo per l’esecuzione radiofonica in diretta. Abbiamo tutti sentito che c’era un profondo senso che ci riguardava, che poneva delle domande necessarie per il nostro tempo. Insomma era una materia teatrale, era un lascito della Atwood, scritto nell’85, che risuonava di tante riflessioni quotidiane più o meno vaghe, ma impellenti, necessarie. Così Viola mi ha coinvolto nel progetto di una messa in scena ed io sono stato felice di porre la Cura di uno sguardo maschile.

L’occasione del Napoli Teatro Festival era la giusta prova per il debutto e così è stato.

Il “corpo” dell’Ancella nella sua “voce che racconta” e vive, si disponeva così davanti ai nostri occhi e col suo sguardo ci chiedeva la nostra presenza.

Quali le difficoltà nel dirigere Viola Graziosi (per chi non lo sapesse, compagna nella tua vita) e se posso quanta libertà le hai lasciato…

Viola Graziosi è un’attrice straordinaria e può anche risultare di parte detto da me, ma non sono l’unico a pensarlo, a viverlo in scena e nel dirigerla.

Le difficoltà stavano soprattutto nella mole di parole, nei continui cambi di emozione, nel contenere una materia così esplosiva, così compromettente e come dice lei:

“È stato doloroso da imparare a memoria”

Qui le parole costituiscono tutto, sono i mattoni e la calce. Tutto è parola. È parola che si fa scenografia, panorama emotivo e gesto interno che incide la carne. Superare la forte dose emotiva che caratterizza questo testo, l’ignavia dell’Ancella che sembra accettare qualcosa che pensa essere temporaneo, senza accorgersi che si installa invece come regime teocratico in maniera subdola e violenta, tutto ciò diventavano, nel lavoro di Viola, lacrime e singhiozzi. Non potevano appartenere alla protagonista, ma era Viola stessa, la sua sensibilità di donna a non poterne fare a meno. La difficoltà era trovare la giusta distanza per “raccontare” qualcosa di indicibile. Io ho suggerito e misurato con lei questa distanza, quello “spazio” di realtà dove l’immaginazione fa tutto. Lasciandole poi la libertà di vibrare alla “risonanza” creata col pubblico, una sorta di non giudizio, una sospensione che può veicolare l’Azione scenica.

A chi, ma soprattutto perché, consiglieresti la visione dello spettacolo Il Racconto dell’Ancella?

A tutti naturalmente perché ci riguarda.

Alle donne perché possono condividere un pensiero talvolta nascosto, perché possono liberarsi da tanti piccoli e grandi abusi che hanno visto nella loro vita e nelle altre donne. È uno svelamento in cui la donna può riconoscere la radice di tante battaglie, di tante idee che sono ancora terreno di confronto e anche di scontro.

Per gli uomini che possono avere un principio di ulteriore consapevolezza di un mondo costruito a loro immagine e somiglianza e di cui forse non sono nemmeno stati così coinvolti nella scelta, ma ne hanno approfittato, più o meno inconsapevolmente, ed ora si chiedono come e cosa fare, dove stare, che fare per cambiare insieme, senza schemi, senza assurde separazioni e lotte.

Giovani che possono disporsi al cambiamento cogliendo nell’origine il proprio futuro prossimo, superando la paura del vicino di casa o di platea che ti sorride e diffidi della tua stessa capacità di valutare la realtà. Il Teatro può allontanare questa paura, per me, può guarire i frammenti di identità che ci portiamo addosso e creare un corpo nuovo.

Il Racconto dell’Ancella sarà in scena presso il Teatro Filodrammatici che ha fatto della drammaturgia contemporanea il proprio credo, grazie ai suoi direttori artistici.

Vista la tematica, maledettamente attuale, quant’è difficile oggi in Italia fare nuova drammaturgia?

La drammaturgia contemporanea è la linfa di un Teatro che si pone come specchio della società, come propulsore di tematiche e visioni che vogliono accendere dibattiti, come motore di rinnovamento della nostra coscienza collettiva. Tommaso Amadio e Bruno Fornasari, Direttori artistici del Teatro dei Filodrammatici lo sanno da tempo e siamo molto grati di averci accolto nella loro stagione.

Ma il discorso è molto ampio e forse vale la pena affrontarlo in altra sede.

Voglio solo dire che Teatri che nel tempo hanno investito sulla qualità della proposta hanno posto le basi sulla formazione di uno spettatore accorto che sa scegliere e trova novità nel classico come nel contemporaneo. Il Teatro è per sua natura sempre contemporaneo, modi polverosi e antichi o ego-riferiti semplicemente non parlano al pubblico d’oggi.

Chi vorresti vedere in Prima Fila il 9 di gennaio e cosa vorresti che si portasse a casa terminata la visione dello spettacolo Il Racconto dell’Ancella?

Che bella domanda!

Forse in prima fila lascerei tutte le sedie vuote, quelle sedie con i nomi di tutte le donne abusate, che hanno subìto violenze e ora non ci sono più, un numero impressionante in Italia, come in Francia, come ovunque. E poi se si potesse dividerei le coppie, metterei le donne dietro e gli uomini davanti, che sentano alle loro spalle lo sguardo silente che osserva i piccoli dettagli delle loro reazioni, per poi ritrovarsi e conoscersi forse di più. Insomma creerei un’esperienza insolita per spostarsi dalla propria zona di conforto e di, spesso, menzogna, lasciando forse che una “risonanza” benefica faccia il suo corso.

Tutto questo vi aspetta al…

Teatro FILODRAMMATICI
dal 9 al 14 gennaio 2024
IL RACCONTO DELL’ANCELLA
tratto dal romanzo di Margaret Atwood
con da Viola Graziosi
regia di Graziano Piazza

Graziano Piazza mi ha fatto un regalo ovvero una sua personale narrazione dello spettacolo Il Racconto dell’Ancella, tra letteratura e teatro. E io ho deciso di condividerlo con Voi:

“L’Ancella porta in sé l’urgenza di quella domanda che brucia:

la nostra responsabilità di ricordare.

Ci interroga sulla libertà, su ciò che ne facciamo e soprattutto su quale sia realmente la libertà delle donne. Diventa un simbolo, ma anche l’incubo di un futuro prossimo possibile, un monito che ci tiene in guardia.

Nella nostra esperienza di esseri umani ci ritroviamo talvolta a cogliere i segni del cambiamento senza ascoltarli troppo, demandando la nostra responsabilità ad altri e pensando che tutto procederà sempre più o meno bene. Poi quando è ormai troppo tardi, ci accorgiamo che il cambiamento ci ha superato e siamo diventati vittime della nostra stessa indolenza.

La Storia ci insegna che sovente avviene così; e restiamo attoniti leggendo e scopriamo la data di pubblicazione del romanzo di Margaret Atwood: quasi quaranta anni fa. Ha spostato in avanti nel tempo ciò che ha tratto da vicende accadute nel passato, da teocrazie coercitive che subdolamente si sono insinuate nelle pieghe sociali e sono diventate una follia dilagante: una distopia insomma.

La Letteratura crea mondi e spazia nell’immaginario del lettore senza nessun confine. È una fruizione assolutamente personale, privata, intima, è un rapporto diretto tra l’autore, a volte il traduttore, e il lettore. Si instaura il privilegio di scoprire parola per parola il dipanarsi della storia o della visione e il tempo dell’immedesimazione diventa osmotico. Come a rilascio lento. Il tempo della lettura non è certo il tempo del Teatro. Chiaramente l’osmosi può avvenire dentro di noi, ma l’atto della condivisione in una platea di quel cuore che batte all’unisono per la narrazione che si sta vedendo, ascoltando, sentendo, implica una compromissione assolutamente diversa. Comunque, dei confini. Un luogo deputato con gli argini delle poltrone adiacenti, e quelle davanti e dietro, e poi la distanza dal palco, le luci, il buio. Aderire a questi confini, aderire alla realtà/finzione, alla materia dell’immaginazione è sempre stata l’utopia del Teatro. Soprattutto nel caso della Atwood, la distopia del romanzo diviene fatalmente una sorta di adesione tacita dello sguardo silente del pubblico. Accettazione quasi contraddittoria, irritante a volte. Il “pensiero” della Letteratura aleggia in sala, e dilaga nella nostra emozione richiedendo la compromissione del corpo dello spettatore. La materia che si fa Tempo.

Trasformare il lettore del romanzo nel pubblico del Teatro, mantenendo la stessa carica emotiva, moltiplicandola per ogni spettatore e creando le condizioni in cui il Tempo del Teatro diventi silenzio condiviso, è la peculiarità specifica della Letteratura per il Teatro: l’immaginazione diventa proposta concreta, la voce risonanza, il corpo accadimento nel tempo. Ho la forte sensazione che la letteratura a teatro provenga dalla sala; come se l’autore non fosse sul palco, ma in platea insieme al pubblico. I testi teatrali spesso li sento provenire dalle quinte, e spesso rimangono ancorati lì e il pubblico assiste a qualcosa che non conosce, a volte con lontananza. Non esiste la quarta parete, la parola del romanzo pone la sua concretezza come atto puro di condivisione, l’azione è la complicità di quel corpo col nostro corpo che vive al di qua del proscenio. L’azione si fa parola in quell’atto magico e politico di comunanza.

L’attore è il canale di trasmissione. Viola, ne Il Racconto dell’Ancella, si scinde e rice-trasmette il segnale del mondo della Letteratura, dell’immaginazione senza confini e dà testimonianza, ricordo, per il Tempo che si accorcia in scena, per tutte le scene che si sono contratte, trovando una sintesi drammaturgica e scenica nel suo corpo. Viola contiene tutte le magnifiche descrizioni, ci entra dentro e le guarda con gli stessi occhi dello spettatore, le scopre e le vive incidendo così nel corpo teatrale della letteratura, corpo della memoria presente, segno inciso nel suono della parola, negli occhi che ci guardano da un luogo indefinito. Tempo che travalica le ere. E ci troviamo catapultati lì dove non avremmo mai voluto, eppure così vicini a noi, ora.

Quando Viola mi ha chiesto di metterla in scena in questo Racconto distopico ho immediatamente constatato che Loredana Lipperini ha tratto un filo – è il caso di dirlo, rosso – di narrazione così da condensare e scegliere momenti topici che permettono di seguire l’evoluzione emotiva della protagonista, e di assumerne più ruoli nella traccia/voce del racconto. Una voce che lascia un segno inciso nelle registrazioni, “una voce che racconta…”, come accade nel romanzo.

Scelte sicuramente non facili per la bellezza e la ricchezza delle mille e mille pieghe della storia narrata; eppure è riuscita a mantenere la rotta ferma sul materiale emotivo e allo stesso tempo esplicativo del florilegio sociale costruito dalla Atwood, la sua connotazione fredda, quasi cinica, nelle contrapposizioni, negli abusi, nel chiedere la nostra posizione di lettori/spettatori/artisti di fronte a tutto ciò.

Né ha fatto riferimento al linguaggio televisivo della serie che ha decretato un successo planetario al romanzo, che ha esigenze diverse di sceneggiatura, di tempi e di modi. Non lo abbiamo fatto nemmeno noi, mettendolo in scena. Non abbiamo pensato certo di poter ricostruire la potenza delle immagini cinetelevisive. Abbiamo fatto ciò che riteniamo sia ancora più forte e incisivo: nulla può essere più potente della nostra immaginazione. Dagli studi sul cervello fino alla programmazione neuro linguistica sappiamo quanto la nostra mente sia in grado di ricreare una realtà immaginaria credendola talmente reale da suscitarne una condizione fisica ed emotiva.

“L’evocazione”, quando non diventa formalità estetica ma, a volte, anche in quel caso, riesce a ricreare tutti i mondi possibili. Il flusso del veicolo emotivo della musica in un continuum di Riccardo Amorese, suscita questa evocazione come una scenografia musicale e ci suggerisce una partitura fisica in continuo dialogo e in continua trasformazione. I luoghi esteriori si specchiano con quelli interiori seguendo e divenendo suono stesso, nota, gesto musicale. Risuoniamo a certe frequenze in maniera molto concreta e la musica può cambiare la nostra chimica. Il connubio quasi ostinato di una sonorità costante che si percepisce nella scrittura del romanzo, invade la nostra mente, nella lettura, così come ciò a cui assistiamo con i sensi desti nella presenza del nostro corpo, che non mente.

Al contempo abbiamo operato anche noi una scelta difficile ma necessaria: rendere visibile la presenza dell’uomo, “evocarlo”, nella sua assenza, negli effetti che crea. Lasciando il corpo della protagonista come il “luogo deputato”. Viola diventa così il palcoscenico che si dispone a essere testimone, pagina scritta con cicatrici calligrafiche, una sorta di ostensione di se stessa, perché tutti se ne possano cibare e trarre salvezza. E in una teocrazia aberrante come quella del Racconto dell’Ancella, il corpo cristico è parte di noi, simbologia di tutte le vessazioni subite, ma anche matrice di guerre, violenze e abusi. Il corpo che crea è donna, il corpo che unisce la materia e lo spirito, che contiene l’uomo e gli dà vita attraverso l’uomo. La Atwood ci ha lasciato questa reliquia del Tempo, ci parla da lontano, con le parole del passato e con gli spettri del futuro, contemporaneamente, perché ci sia questo iato, un gate, uno squarcio del velo di Maya sul palcoscenico del nostro corpo per ricordarci di fare questo in memoria di noi”.

Buona serata a Teatro!

TiTo

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