
Il Piccolo Teatro Studio ha ospitato “Gabbiano” per la regia di Carmelo Rifici. Testo tra i più importanti di Anton Checov, richiede professione, maestria ed esperienza per poter essere affrontato da una regia “alla pari”.
Manifesto poetico del pensiero dello scrittore rispetto al teatro, Il Gabbiano è ricco di temi cari e ricorrenti: la riflessione sul teatro in particolare e sull’arte in generale, sull’uomo, sulla sua meschinità, sulle sue imperfezioni, e soprattutto sulla sua voglia di anelare a una situazione diversa, ad essere diverso, e sul suo indiscutibile, continuo fallimento.
È chiaro, ancor prima che inizi lo spettacolo, che Carmelo Rifici non abbia deciso per un taglio realistico. Sedute diverse e tavoli/praticabili moderni si trovano sul palcoscenico. Appena si apre la scena, tutti i personaggi, tranne Nina, si trovano “al loro posto”, davanti al pubblico, come se un creatore invisibile avesse appoggiato con cura e attenzione le sue miniature. Quelle miniature costruite, dipinte e preparate con immensa precisione ora sono sotto una grandissima lente di ingrandimento: il teatro e gli occhi dello spettatore.
Le didascalie di Checov sono demandate alla voce degli attori, la prima scena è una grande presentazione di ogni partecipante a questo grande dramma. Il testo, tradotto e quasi estremizzato dalle intenzioni e dai corpi, è chiaro, tremendamente diretto e aiuta nella comprensione di rapporti e caratteri. Il simbolo, che domina la messinscena, è potente ma non misterioso. La chiave estetica di Rifici e dei suoi collaboratori non si chiude in un pensiero cerebrale rivolto a pochi. Il Gabbiano non realistico del regista vuole comunque essere per tutti. Negli avvicendamenti sul palcoscenico si trovano personaggi che non si salvano, tremendamente mortali, difettosi, concentrati solo ed esclusivamente sui propri fallimenti.
Ogni volta che ognuno di loro sembra spiccare il volo, dopo poco tempo lo si trova schiacciato, straziato dall’insoddisfazione di non essersi realizzato. Quasi isterici, rimangono – come in Checov d’altronde – ingabbiati in campagna, nelle loro aspirazioni, nei loro rapporti ormai in cancrena. Rifici nel libretto a disposizione degli spettatori parla di “[…] un testo irritante. […] Gabbiano non è tranquillizzante; è molto critico nei confronti di una società che ha il difetto di semplificare perché è mediocre e quindi non può accettare – e anzi castiga – ogni tensione al sublime”. Tutto vero, peccato – o stupendo paradosso – che sublimi fossero, in realtà, gli attori, la messinscena e tutto lo spettacolo.
Vera Di Marco
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